Un accordo “non conforme alla Costituzione”, potenzialmente lesivo dei diritti fondamentali della persona e in aperto contrasto con le norme internazionali ed europee. È questa, in sintesi, la valutazione contenuta nell’ordinanza con cui la Corte di Cassazione rimette alla Corte costituzionale il compito di pronunciarsi sulla legittimità del protocollo siglato tra Italia e Albania per la gestione dei migranti.

Nel dettaglio, il protocollo prevede l’apertura in territorio albanese di centri di trattenimento e identificazione per i migranti intercettati in mare dalle autorità italiane. L’obiettivo dichiarato dal governo è “alleggerire” il sistema d’accoglienza nazionale e lanciare un messaggio di fermezza contro i trafficanti. Ma secondo la Suprema Corte, si rischia di sacrificare lo stato di diritto sull’altare della propaganda.

I rilievi della Cassazione

L’ordinanza, che accoglie l’eccezione sollevata dai legali di un migrante tunisino, contesta anzitutto il trasferimento coattivo di persone in un Paese terzo, al di fuori del territorio dell’Unione Europea, per procedimenti amministrativi e giudiziari che coinvolgono la libertà personale. Una scelta che, secondo i giudici, viola l’articolo 13 della Costituzione e non offre le garanzie minime previste dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Non solo. La Cassazione sottolinea che il diritto d’asilo, riconosciuto dall’articolo 10 della Costituzione, non può essere svuotato di significato attraverso l’esternalizzazione delle procedure. Se una persona chiede protezione sul suolo italiano, deve potersi vedere garantiti tutti i diritti procedurali e sostanziali previsti dall’ordinamento.

Le criticità sul piano internazionale

Oltre ai rilievi costituzionali, l’ordinanza mette in dubbio la compatibilità dell’accordo con il diritto internazionale. In particolare, vengono evocati i principi di non-refoulement (non respingimento) e di tutela effettiva, che obbligano lo Stato ad accertarsi che ogni migrante venga trattato in maniera dignitosa, con possibilità di accedere a un ricorso giurisdizionale effettivo.

Secondo i giudici, l’Albania – pur essendo un Paese candidato all’ingresso nell’Unione – non offre le stesse garanzie del sistema giuridico italiano ed europeo, né è vincolata agli stessi obblighi. La creazione di una “zona extraterritoriale” a gestione italiana, ma sotto sovranità albanese, rischia di diventare un escamotage per eludere responsabilità giuridiche e politiche.

Una battuta d’arresto per il governo

Il pronunciamento rappresenta un colpo pesante per l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, che aveva sbandierato l’intesa con Tirana come modello innovativo per la gestione dei flussi migratori. Il patto era stato celebrato come “storico”, ma si scopre ora fragile sul piano dei diritti.

La Corte costituzionale è ora chiamata a intervenire, ma già si preannuncia una battaglia giuridica complessa. Se i giudici della Consulta dovessero confermare i rilievi della Cassazione, l’accordo potrebbe essere dichiarato in parte o del tutto incostituzionale, con conseguenze significative anche per altri eventuali tentativi di esternalizzazione delle frontiere.

Il futuro dei diritti in gioco

Al di là dei risvolti giuridici immediati, la vicenda interroga la tenuta democratica dello stato di diritto in Italia. Può un governo aggirare le tutele costituzionali stipulando accordi bilaterali con Paesi terzi? Fino a che punto è legittimo dislocare la gestione dei migranti al di fuori del territorio nazionale?

La risposta non può che arrivare dal diritto, ma anche dalla politica. Perché ogni volta che si cerca di marginalizzare un diritto in nome dell’efficienza o della deterrenza, si apre un varco pericoloso per tutti.