L’avvento delle grandi piattaforme digitali è andato di pari passo con una rapida trasformazione del modo di operare di mercati, sistemi di comunicazione, istituzioni e società più largamente intesa. In linea con la natura (apparentemente) immateriale della rete internet, la trasformazione digitale della società sembrava aver aperto la strada a una diffusione “orizzontale” delle opportunità economiche (maggiori opportunità di accesso alle informazioni, abbattimento dei costi di transazione, riduzione delle barriere all’ingresso nei mercati) e, con esse, dei benefici della concorrenza.

In realtà, quello cui si è assistito è stata una intensa concentrazione di potere, economico e tecnologico. Quest’ultima ha contribuito ad accrescere le diseguaglianze economiche tra Paesi e all’interno degli stessi, a esacerbare le tensioni globali acuendo il rischio di conflitti e a ridurre la capacità degli Stati di redistribuire le risorse e di disciplinare l’attività dei soggetti economici privati nell’interesse della collettività.

La concentrazione di potere è visibile da molteplici angolature. Potere economico: il valore delle maggiori piattaforme digitali è ormai di gran lunga superiore al Pil delle principali economie mondiali (ad esempio: nel 2021, la somma dei ricavi delle prime 20 società che operano nel settore internet e software era pari al 90% del Pil italiano).

Potere tecnologico: le grandi piattaforme digitali controllano la gran parte delle tecnologie (e dei brevetti a esse connessi) chiave per la transizione digitale, come l’Intelligenza artificiale (IA), nonché le infrastrutture critiche, quali cloud e cavi sottomarini, che sono oggi vitali per il funzionamento dei mercati e degli apparati pubblici.

Potere e controllo della conoscenza: godendo di una primazia tecnologica, dominando gli “ecosistemi innovativi” e disponendo di risorse utili a finanziare progetti di lungo periodo anche nell’ambito della ricerca di base condotta dalle università, le piattaforme possono condizionare lo sviluppo della conoscenza subordinandola alle loro esigenze strategiche.

Potere politico: controllando gli spazi virtuali ove si forma (e viene spesso manipolata) l’opinione pubblica ed essendo interlocutori indispensabili per il perseguimento di obiettivi chiave in ambiti sensibili quali quello militare e della sicurezza interna, le piattaforme vivono un rapporto di “mutua dipendenza” con gli Stati. Tale rapporto fornisce alle multinazionali digitali la capacità di sfuggire alle regolamentazioni ostili (ad esempio, in materia fiscale e di privacy) e di condizionare scelte rilevanti in materia di politica industriale e dell’innovazione.   

Quali sono le cause di tale concentrazione di potere? Anche in questo caso, le dimensioni da prendere in considerazione sono diverse, sebbene tra di loro interconnesse. Primo, la nascita delle piattaforme coincide con un massiccio “trasferimento tecnologico” dal pubblico al privato, privo di costi per quest’ultimo. Ciò ha permesso a una manciata di società private, principalmente statunitensi, di appropriarsi di conoscenza e tecnologie sviluppate in ambito pubblico acquisendo un formidabile vantaggio competitivo nei confronti degli Stati e delle altre imprese.

Secondo, il modello organizzativo delle piattaforme è fisiologicamente vocato alla mercificazione di spazi pubblici (o, più in generale, spazi sin qui immuni dall’accumulazione capitalistica), poiché fondato sulla privatizzazione di tutte le attività che possono essere trasformate in informazione digitalizzata.

Terzo, le tecnologie e i modelli organizzativi basati sullo sfruttamento delle informazioni si caratterizzano per un’elevata “scalabilità”, ovvero il vantaggio competitivo di chi controlla le reti informative cresce esponenzialmente al crescere della dimensione delle stesse. Infine, lo sviluppo delle piattaforme coincide con un processo d'individualizzazione della società e frammentazione del lavoro che riduce le possibilità di contrastare l’accumulazione di potere da parte delle piattaforme e, parallelamente, aumenta le diseguaglianze.

La rarefazione dei confini tra Stati e multinazionali digitali costituisce uno degli elementi di maggiore novità e, al contempo, di maggiore preoccupazione per quanto riguarda la commistione tra poteri pubblici e interessi privati. In questo quadro, un ruolo chiave è svolto dal settore militare.

Se si guarda al conflitto attualmente in corso, il ruolo determinante svolto da una manciata di grandi piattaforme digitali segna una discontinuità importante rispetto al passato e costituisce un fenomeno di rilievo che va ben al di là della guerra tra Russia e Ucraina. La Figura 1 mostra come, dal 2008 al 2021, il valore monetario delle commesse pubbliche ottenute dalle quattro principali piattaforme digitali statunitensi e stipulate con il Dipartimento della Difesa (DoD) e altre agenzie federali legate ai comparti difesa e sicurezza sia cresciuto in modo costante. La Tabella 1, invece, riporta i dettagli (valore monetario delle commesse e dettaglio dell’attività svolta) relativi a una selezione di contratti pluriennali di particolare rilevanza tecnologica ottenuti dalle stesse piattaforme in ambito militare e sicurezza interna.

In questo quadro, il vasto potere economico di cui le piattaforme già godono grazie al controllo della sfera digitale dell’economia, si arricchisce di un nuovo elemento in grado di alimentarlo ulteriormente. Si tratta della già menzionata mutua dipendenza che può rendere gli interessi degli Stati a tratti indistinguibili da quelli delle grandi imprese digitali che dominano le infrastrutture, le tecnologie e le conoscenze necessarie alla sopravvivenza economica, politica e militare delle società contemporanee.

Pur non essendo prive di contraddizioni ed entrando spesso in conflitto tra loro, le strategie espansive degli Stati nazionali e delle piattaforme digitali si intrecciano, si supportano vicendevolmente, si alimentano nella continua ricerca di nuove opportunità di accumulazione, nuovo valore da estrarre, nuove risorse, dati e tecnologie da controllare al fine di accrescere la propria egemonia politica e militare.

Come sempre, tuttavia, la storia conta. Analizzare la mutua dipendenza tra Stati e piattaforme impone di volgere lo sguardo verso uno dei (o su entrambi i) poli che attualmente si contendono l’egemonia globale: Stati Uniti e Cina. È lì, infatti, che risiedono le piattaforme in competizione per il dominio dell’economia digitale.

Che fare? La concentrazione di potere illustrata in questa breve nota mette in luce i rischi che gravano sulle economie mondiali per quanto riguarda la crescita delle diseguaglianze, gli effetti indesiderati del cambiamento tecnologico, la privatizzazione della conoscenza e il moltiplicarsi dei conflitti. Le potenziali contromisure, con particolare riferimento all’intervento dello Stato e al ruolo dei sindacati, sono indebolite dalla distribuzione asimmetrica delle infrastrutture e delle tecnologie digitali, il cui controllo è al centro delle crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina, con l’Europa a giocare un ruolo sempre più marginale.

Da questo punto di vista, l’azione preliminare che dovrebbe precedere qualsiasi intervento di natura microeconomica o settoriale dovrebbe essere il recupero della sovranità degli Stati sulle infrastrutture digitali chiave e sulle reti ove circolano le informazioni. Un passaggio di questo genere avrebbe effetti dirompenti sulla struttura dei mercati e le relazioni di potere - mettendo in discussione, per quanto riguarda l’Europa, la primazia delle grandi piattaforme digitali americane - ma costituisce, allo stesso tempo, la precondizione per qualsiasi discussione seria in merito alla compatibilità di digitalizzazione, democrazia e distribuzione equa delle risorse.

La sua praticabilità politica è un altro discorso. Tuttavia, in una fase in cui la “guerra digitale” costituisce l’altra faccia delle guerre che in modi sempre più cruenti vengono combattute sul campo, può essere considerata legittima una riflessione radicale circa il modo di governare la transizione digitale e la sua evoluzione nel prossimo futuro.

Dario Guarascio, docente di Economia dell'innovazione, Università di Roma "La Sapienza"