Le implicazioni dei processi di digitalizzazione sono divenute tema centrale del dibattito pubblico e politico, specie in questi ultimi mesi.

Pur essendo passati più di 50 anni dalla realizzazione della prima rete di computer, Arpanet, che nel 1969 collegava i Personal computer delle 4 maggiori università americane, solo da pochi lustri si ragiona di quali siano le implicazioni, anche regolatorie, dell’applicazione delle nuove tecnologie

La pandemia ha comportato in questo ultimo anno uno spostamento massivo di fruizione di servizi, ed esercizio di diritti, dal “ fisico” al digitale e questo ha reso centrale, nel dibattito pubblico, la complessità del tema della digitalizzazione.

In primo luogo si è immediatamente riproposto il problema del digital divide, che attraversa il nostro paese, evidenziando contestualmente la necessità di investimenti, di messa a sistema di progetti organici e coerenti, di semplificazione necessaria e non più rimandabile di processi amministrativi, facilitata dall’utilizzo del digitale.

Ancora, l’eccezionalità della situazione ha determinato la implementazione di nuove modalità organizzative del lavoro, una nuova strutturazione della didattica ma anche della cura e dell’assistenza.

Ma nella declinazione dei diritti individuali dove si colloca il diritto all’accesso ad internet?

Sul tema, a livello nazionale, si è avviato da tempo un dibattito che ha visto una prima traduzione concreta nella “Dichiarazione dei diritti in Internet” (2015), fortemente voluta da Stefano Rodotà, il quale intendeva regolare, tutelando libertà individuali e collettive, l’accesso, l’uso non distorsivo né violento, la sicurezza della privacy, la neutralità della Rete, il diritto all’oblio: 14 articoli pensati come linee guida per la necessaria interpretazione evolutiva delle normative esistenti e che, nell’art 1, riconoscono che “L'accesso ad Internet è diritto fondamentale della persona e condizione per il suo pieno sviluppo individuale e sociale.”

Nello stesso anno il Regolamento UE del Parlamento Europeo e del Consiglio (25 novembre 2015) definiva norme comuni per garantire un trattamento equo e non discriminatorio del traffico nella fornitura di servizi di accesso a Internet per tutelare i relativi diritti degli utenti finali, nonché garantire la neutralità della Rete nel territorio comunitario.

Ad oggi, in Italia, sono state presentate due proposte di legge per tradurre in norma costituzionale il diritto a internet, inserendo nella Costituzione un articolo 21 bis ( dunque nell’ambito delle libertà di espressione ) e un 34bis ( dunque in materia di riconoscimento di un diritto sociale di accesso alla rete internet).

La discussione di merito sull’opportunità del rango costituzionale di questo diritto e la sua opportuna allocazione nell’una o nell’altra parte del testo costituzionale è materia di interesse non solo della dottrina, perché ciò che attiene la scelta normativa necessita poi di una declinazione pratica che sappia rendere quello alla connessione un diritto realmente esigibile, come strumento di esercizio di una serie di ulteriori diritti già previsti in costituzione, che vanno dalla libertà di espressione al diritto all’istruzione, di impresa, di cura.

In generale però, seppure l’accesso a internet, accompagnato a una adeguata formazione anche critica all’utilizzo del digitale, è ormai elemento irrinunciabile di sviluppo ed inclusione economica e sociale, il tema del necessario rapporto tra diritti e tecnologia, la ridefinizione di equilibri di potere che riconoscano dignità e libertà al singolo, implicano una discussione politica più ampia.

Partiamo dal concetto di rete del suo inquadramento giuridico: le reti digitali sono di interesse pubblico? Quale ruolo deve avere lo Stato nella sua gestione?

E ancora: come tutelare i dati immessi da milioni di cittadini sulle piattaforme, come evitare che questi dati siano elemento di estrazione di ricchezza da parte di pochi oligopolisti, che trattamento dare ai dati pubblici che hanno sì la funzione di ridurre le distanze fra i cittadini e le istituzioni ma anche di garantire un esercizio di cittadinanza attiva e partecipata? Possiamo definire i dati beni comuni?

Il baricentro del sindacato rimane la necessità di inclusione, di estensione dei diritti, di tutti i diritti, di sostanziamento del principio di eguaglianza, di dignità e di centralità del lavoro, di superamento delle disparità economiche e di lotta allo sfruttamento.

Tutto questi temi rimangono terreno di azione politica e sindacale anche e soprattutto quando la tecnologia, mai neutra, modifica le condizioni di vita delle persone.

Nella non neutralità della tecnologia risiede la necessità di un indirizzo politico chiaro di indirizzo e programmazione, che consenta di agire i diritti, di prevedere la corretta declinazione della cittadinanza, di evitare i rischi di discriminazione e sperequazione.

Ogni epoca ha una tecnologia e in ogni epoca, a fronte di nuove implementazioni, è necessario che vengano riaffermati ed estesi i diritti dei singoli e migliorate le condizioni di vita e di lavoro delle persone.

Questa straordinaria fase di rivoluzione tecnologica e di emergenza sanitaria ci offre l’opportunità di riportare al centro del dibattito politico la necessità del ruolo del pubblico nella gestione dei beni comuni, una ridefinizione stessa di cosa oggi sia bene comune, ci consente di riaffermare la centralità del ruolo di rappresentanza delle lavoratrici e dei lavoratori e dei cittadini, affinché la straordinarie possibilità offerte dalla tecnologia siano rivolte al riconoscimento e alla risposta di bisogni, orientate all’eliminazione delle sperequazioni, delle diseguaglianze sociali, all’affermazione di principi di innovazione sociale che abbiano al centro le persone.

La tecnologia è frutto di attività umana, la sua architettura e le finalità del suo utilizzo sono parimenti scelte umane.

In queste scelte, nella loro trasparenza, nel loro orientamento, sta la possibilità di migliorare la vita delle persone, di ampliarne diritti, di garantire opportunità e perequazione sociale. E dunque di garantire e tutelare i principi democratici su cui si fonda la nostra Costituzione

Per questo ogni tema, da quello regolatorio a quello contrattuale, che attiene le molteplici derivate delle veloci implementazioni tecnologiche interessa e impegna il sindacato confederale.

Oggi, nell’occasione e nell’urgenza di riprogettare il paese utilizzando i fondi europei per investimenti di modernizzazione anche digitale, l’Italia ha la straordinaria occasione di operare scelte politiche che consentano di superare diseguaglianze e squilibri di potere e garantire un esercizio vero, concreto, dei diritti di cittadinanza. Per questo, a partire dai Piani del PNRR, è necessario praticare la coerenza con i principi di trasparenza, uguaglianza e riequilibrio di potere. Alla prima delle 6 missioni indicate nel PNRR, dal titolo digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura, sono infatti destinati 46,1 miliardi. La ripartizione dei fondi per questa missione vede per digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella PA un investimento di 11,4 miliardi, per digitalizzazione, ricerca e sviluppo e innovazione del sistema produttivo, in cui rientra anche il Piano Transizione 4.0, la finalizzazione di circa 26,7 miliardi, ed infine per il turismo e la cultura 8 miliardi.

Di per sè poi la innovazione digitale impatta trasversalmente anche sulle altre azioni previste dal Piano.

Tutta l’Europa sarà coinvolta in diversa misura in attività di investimento, riorganizzazione e implementazione e proprio in Europa in questi mesi si propongono regolamenti che rendano più trasparenti le piattaforme. Di certo il percorso di regolazione europea sarà lungo e, proprio per questo, noi ribadiamo la necessità di una regolamentazione nazionale più stringente, che assuma la tutela del singolo come elemento obbligatorio, derivato proprio dall’esercizio libero del diritto soggettivo alla connessione.

Trasformare, innovare e regolamentare sono azioni che dovrebbero essere contestuali, pena l’ampliamento di diseguaglianze e sperequazioni.