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C’è un referendum, anzi cinque. Ma non ditelo alla Rai: potrebbe persino accorgersene. I dati Agcom parlano chiaro e parlano da soli, visto che nessuno li ascolta: lo 0,62% degli spazi informativi è stato dedicato alle consultazioni popolari. Meno del tempo riservato al meteo delle isole minori. La democrazia, per il servizio pubblico, è diventata una comparsa trascurabile. Uno starnuto fuori copione.
La tv di Stato, finanziata con il canone obbligatorio e la pazienza infinita degli italiani, è ormai una dependance del potere. Elegantemente occupata dalla premiata ditta TeleMeloni & Fratelli, non con un colpo di mano, ma con la sofisticata grazia di chi sa rendere la censura una scelta di stile: una colonizzazione lenta, a colpi di talk show addomesticati, dibattiti in provetta e Tg più devoti di un novizio frate cappuccino.
La parola “referendum” è diventata un’incognita imbarazzante, un fastidio da nascondere sotto il tappeto di fiction storiche e varietà geriatrici. Così facendo non si nega solo il voto: si toglie l’ossigeno all’informazione. Le urne si aprono, ma le bocche si chiudono. È una truffa in guanti bianchi.
Uno dei pochi strumenti di democrazia diretta viene reso invisibile. Perché se non sai che esiste, come puoi esercitarlo? Non si può scegliere senza conoscere, né conoscere senza essere informati. Ed è proprio qui che il servizio pubblico dovrebbe fare la differenza: offrire chiarezza, dare voce, garantire comprensione. Non versare prosecco a ogni passerella di governo.
Tocca a noi, allora, rompere questo blackout. Alzare la voce. Perché chi spegne la luce dell’informazione, prima o poi spegne anche quella della democrazia. E a quel punto, dello 0,62% non resterà nemmeno il ricordo. Solo un buio comodo, perfetto per chi comanda.