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C’è un’Italia che si alza all’alba, timbra, sgobba, si spezza la schiena e va a dormire con la pancia vuota. È l’Italia che esiste solo una volta l’anno, quando la Caritas ci sbatte in faccia l’ennesima fotografia della miseria al lavoro. Allora e solo allora i benpensanti spalancano gli occhi, si stracciano le vesti, biascicano un “che vergogna” tra un brunch e una riforma fiscale. Poi tutto torna tranquillamente al suo posto.
Abbiamo inventato il capolavoro: la piena occupazione povera. Il caporalato con il badge, la fame sotto contratto. Un tempo si temeva la disoccupazione, oggi è il lavoro stesso a spaventare. Non libera, incatena. Non salva, affonda. È la nuova frontiera del cinismo economico: salari da sussidio, orari da galera e diritti evaporati nel nome della flessibilità. Una cura che uccide il paziente ma salva l’indice di produttività.
E nel Nord, quello produttivo, quello “serio”, dove un tempo bastava lavorare per tirare avanti, oggi ci trovi i nuovi indigenti con la divisa aziendale e la dignità a rate. Altro che eccellenze, lì si distribuiscono pacchi alimentari, mica dividendi. Il merito è riuscire a mangiare e pagare l’affitto nello stesso mese. Un miracolo. Un privilegio. Una roulette.
Il governo, dal canto suo, parla. E come se parla. Annuncia, rassicura, recita. Dice che va tutto bene, che c’è la crescita, che il lavoro va a gonfie vele, basta volerlo. E chi non ci sta è un sabotatore, un ingrato, un nemico della Patria. I lavoratori poveri invece non sabotano nulla: reggono l’intero baraccone, schiena curva, voce bassa, luce spenta.
Il prossimo anno, state tranquilli, si riparte dal via. Altro giro, altro rapporto Caritas, altro stupore da talk show. Ma il lavoro continuerà a non bastare per vivere. E noi continueremo a far finta che sia una sorpresa.