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Non è facile essere Piantedosi. Ti svegli, indossi il decreto sicurezza, ti allacci la cintura ideologica e sali su un aereo convinto di esportare ordine e deterrenza. Poi atterri a Bengasi e scopri che sei tu il problema. Respinto senza appello. Non per errore né per caso, ma perché lì non sei gradito. La Libia, a cui hai affidato vite e fondi, ti sbarra la pista come fossi un trafficante qualsiasi. E tu, ministro dell’Interno, diventi un profugo senza patria diplomatica.
La scena è già cult. Lui e il commissario europeo Brunner piantati sulla pista come due bagagli smarriti. Niente tappeto rosso, niente ricevimenti, solo il silenzio ostile di un potere che sa vendicarsi con stile. Cercavano di fermare i migranti, sono stati fermati loro. Il confine, quella linea tracciata con la penna e il disprezzo, si è finalmente vendicato. Haftar ha detto “no” e basta. Altro che accordi: rientro immediato, dignità trattenuta alla dogana.
Il ministro, abituato a blindare porti e chiudere bocche, pensava che bastasse atterrare col portafogli e un paio di promesse. Dimenticava che la sovranità, quando non è la tua, può mordere. È stato espulso senza nemmeno la cortesia di una nota. Nessuna ong a difenderlo, nessun comunicato di solidarietà. Solo l’imbarazzo di chi assaggia il sapore delle sue stesse politiche.
È un corto circuito perfetto. La Fortezza Europa si scopre fragile come una valigia sfondata. Il gran sacerdote del respingimento trattato come un clandestino qualunque. Non è solo una figuraccia, è una nemesi. La diplomazia dell’arroganza ha fatto cilecca, e stavolta sul barcone c’è finito lui.
Ora dal Viminale parlano di “disguido”. Ma il guasto non è logistico, è morale. Piantedosi non è stato rifiutato per caso, è stato rifiutato per coerenza. In fondo, chi semina muri, prima o poi ci sbatte contro.