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Prendete tre giornalisti spiati da un’azienda israeliana con software che nemmeno nei peggiori spin-off di James Bond, aggiungete un’indagine della Procura di Roma, una spruzzatina di servizi segreti e shakerate il tutto con cura. Ecco servito il caso Paragon: un cocktail esplosivo di sorveglianza illegale e silenzi imbarazzati. In un Paese normale farebbe saltare poltrone e tappeti. Qui invece no. Nella Repubblica del pisolino sovrano, il governo si mimetizza nell’arredo dell’imbarazzo istituzionale: occhi semichiusi, lingua felpata, bocca cucita.
Niente pedinamenti all’italiana o microfoni nascosti nel ficus: qui si entra nei telefoni, nei contatti, nei pensieri. Eppure, l’esplosione mediatica si affloscia sul solito materasso ignifugo della politica nostrana. A destra regna l’amnesia comoda, a sinistra si urla allo scandalo con l’entusiasmo di chi sa già che finirà tutto a tarallucci e protocolli.
Il ministro dell’Interno, interpellato, reagisce come chi sfoglia le istruzioni di un frullatore. Il sottosegretario alla Sicurezza è scomparso da radar e territori. E la premier resta immobile. Così l’inchiesta si muove, ma in completa solitudine. Nessun appoggio politico, solo veline che fingono di non sapere.
In qualsiasi redazione degna di questo nome, una storia simile aprirebbe i notiziari per giorni e giorni. Da noi non fa neanche da riempitivo su Rai Gulp. Troppo reale per far finta che non esista, troppo scomoda per trovare spazio fra i servizi sui cuccioli salvati e i consigli per contrastare il caldo che avanza.
D’altronde, in questo Paese la libertà di stampa è considerata fondamentale come il caffè a fine pasto, ma guai se ti sveglia davvero. Se ti spiano, sei sospetto. Se protesti, sei fazioso. Se chiedi chiarimenti, ti ignorano. Ma la ruota, ahimè, gira per tutti e quando capiterà a loro essere spiati, statene certi che invocheranno la Costituzione con la stessa passione con cui oggi la ignorano.