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Il lavoro, quell’antica religione laica che prometteva dignità in cambio di fatica, in Grecia ha trovato la sua nuova liturgia: tredici ore di devozione quotidiana, benedette dal ministro Kerameos. La riforma si chiama “flessibilità”, parola che ormai ha la grazia lessicale di un cacciavite arrugginito. Si dice che tutto avverrà “su base volontaria” ma si sa, la volontà è un lusso per chi non ha fame.
Il governo di Nea Dimokratia celebra la scoperta del “lavoro giusto per tutti”, che tradotto significa “tutti al lavoro, giusti o meno”. Tredici, un numero quasi biblico, come le fatiche di Eracle più un’ora di straordinario, ma senza la gloria finale. Un’epopea moderna dove l’eroe è il turnista, il call centerista, il cuoco che sogna la pensione come un miraggio nel deserto salariale.
I sindacati gridano al Medioevo, ma sbagliano secolo. Siamo già nel Futuro, quello dove la schiavitù è un contratto digitale e il padrone ha la faccia sorridente dell’algoritmo. La salute e la sicurezza? Appendici obsolete di un lessico antico che fa ancora uso del verbo “vivere”.
L’opposizione si indigna, ma con la compostezza di chi ha già dimenticato come si sciopera davvero. E mentre i greci marciano tra uno slogan e una bolletta, la riforma avanza come un bulldozer in giacca blu. Chi rifiuterà le tredici ore sarà “tutelato”, dice il ministro, un verbo che qui ha il suono sinistro della minaccia cortese.
Il lavoro è tornato a essere ciò che era: sopravvivenza con bonus. La Grecia, culla della democrazia, regala al mondo l’Eracle moderno. Sempre stanco, sempre spingendo, felice di essere spremuto, mentre il sonno e la vita privata restano gli ultimi miti da conquistare. Quanto manca prima che anche respirare diventi straordinario?