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Far naufragare il ddl stupro proprio nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne è come salire sul tavolo apparecchiato per il pranzo di Natale e urlare che Gesù non è mai esistito. È un gesto sfrontato, quasi liberatorio nella sua brutalità. C’era il consenso, pareva tutto pronto, poi la maggioranza ha tirato il freno con la grazia di chi teme ciò che proclama di difendere.
La parabola del ddl stupro rivela una fragilità che il governo tenta di mascherare. Il voto unanime della Camera era stato un miracolo momentaneo, Meloni e Schlein quasi affiancate su un terreno che non ammette ambiguità. Poi al Senato la formula degli “approfondimenti” ha trasformato il coraggio in cautela calcolata, come se il Paese potesse permettersi l’ennesima liturgia del rinvio.
La coincidenza con il 25 novembre amplifica le stonature. Le opposizioni abbandonano la commissione, la maggioranza recita la parte dei responsabili. La scena è chiara. Quando si tocca il consenso, qualcuno vede fantasmi. E preferisce fermarsi, non sia mai che cambino davvero i rapporti di forza.
Il risultato ha un sapore acre. Fuori parole solenni, dentro l’arte del sabotaggio istituzionale. Il governo continua a sventolare la bandiera della protezione, mentre nel frattempo costruisce ostacoli. È una contraddizione che non si prova neanche più a dissimulare, tanto è radicata. Una coreografia che riduce la politica a un esercizio di vigliaccheria ben vestita.
Il rischio ora è evidente. Questo stop può diventare il luogo in cui affondano le riforme che dovrebbero muoversi, non attendere. Il consenso libero e attuale resta sospeso, come sempre. E il patriarcato applaude. Vince senza sudare, perché gli basta guardare il governo esitare. Oggi la maggioranza gli ha regalato un trionfo discreto ma decisivo, una resa mascherata da prudenza.






















