Oggi è lunedì, il giorno in cui le democrazie mature si dedicano alla cura delle istituzioni, al dibattito parlamentare, al confronto civile. Ma non in Italia. Qui oggi si vota la fiducia – sì, la fiducia – sul decreto Sicurezza. La fiducia, capite? Quella roba che di solito si dà agli amici, agli amanti, ai cani che non mordono. Non ai decreti che mordono, schedano, reprimono.

Il governo ha dunque deciso che la sicurezza non è materia da discutere, emendare o pensare. È un dogma, un ordine, un’ossessione. Come quella del vicino che denuncia i rumori immaginari della tua aspirapolvere. Fiducia su un decreto che pare scritto da un algoritmo educato a manganellate, che sventola la legalità come una clava e la Costituzione come carta da origami.

In un’aula che dovrebbe essere il cuore pulsante della democrazia, oggi si ratifica invece un atto d’imperio. Nessun dibattito. Nessun confronto. Solo l’eco di un governo che si parla addosso, mentre l’opposizione arranca tra l’indignazione e l’impotenza, con la stessa efficacia di un estintore difettoso in un incendio doloso.

Il decreto, ça va sans dire, è una lista della spesa per nostalgici duri e puri a senso unico: più armi alle forze dell’ordine, più repressione nei cortei, più poteri ai prefetti e meno diritti a chiunque osi mostrare un’opinione, un cartello, una rabbia. È la sicurezza come mantra di chi ha paura del dissenso, non del crimine.

Chiamano tutto questo “fiducia”. Ma la fiducia, signori, non si impone. Si merita. E oggi, in quest’aula imbalsamata, l’unica cosa che si respira è il tanfo del sospetto. Altro che sicurezza: qui siamo alla fiducia cieca. E nel buio, si sa, inciampano solo i cittadini.