C’è qualcosa di miracoloso nell’assemblea di Confindustria. Si invocano salari più alti, più produttività, più investimenti. Poi si stacca il microfono, si chiude la cartellina e si torna alla realtà: contratti collettivi bloccati, stipendi fermi da trent’anni e un’economia che si regge su bonus-tampone e chiacchiere da convegno. Una platea che applaude all’innovazione, mentre le imprese tagliano sulla ricerca e depositano utili nelle Cayman.

La sceneggiatura è sempre la stessa: si chiede allo Stato di intervenire, magari con una bella pioggia di fondi pubblici, possibilmente a fondo perduto. Peccato che l’80% dei profitti aziendali, negli ultimi anni, non sia stato reinvestito nel Paese. Eppure si battono cassa, senza neanche un briciolo di autocritica, come se lo sviluppo fosse un dovere altrui. È l’economia dell’elemosina col tailleur di lusso.

Nel frattempo, milioni di lavoratori aspettano il rinnovo dei contratti nazionali. Quelli delle telecomunicazioni, della sanità privata, dei multiservizi, dell’industria. Tutto bloccato, ma sul palco silenzio totale: meglio parlare di “merito”, “modernizzazione”, “flessibilità”. Parole vuote lanciate come coriandoli su una platea che preferisce non guardare i picchetti fuori dai cancelli.

E poi la retorica sugli investimenti. L’Italia, ci raccontano, deve crescere. Ma senza soldi pubblici non si può. E quelli privati? Quelli restano nei forzieri, perché reinvestire in questo Paese è un atto di eroismo. Troppo più comodo lamentarsi dei dazi e invocare la mano pubblica, mentre si affida il futuro a speculazioni finanziarie e fusioni al ribasso.

L’assemblea dei colletti bianchi avrebbe potuto essere il momento per affrontare il nodo salariale, la crisi industriale, la fuga degli investimenti produttivi. Invece è stata l’ennesima fiera dell’ipocrisia: tutti a parlare di crescita, ma guai a toccare i margini di profitto. Il capitalismo italiano ha ormai due anime: una col cappello in mano davanti allo Stato, l’altra con la valigia pronta per Singapore.