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Che gran spettacolo, signori. La Scala di Milano ha messo in scena la sua pièce più potente dell’anno: "Il Silenzio di Palestina – atto unico in tre ghigliottinate”. In cartellone non c’erano né Verdi né Puccini, ma un’eroina silenziosa che ha osato – udite udite – gridare “Palestina libera” in un tempio della cultura, proprio mentre la regina del mutismo istituzionale, Giorgia Meloni, faceva il suo trionfale ingresso nel palco reale. Una nota di coscienza stonata nella sinfonia dell’ipocrisia.
Risultato? Licenziata. Non ammonita, non sospesa: licenziata. Per “disobbedienza agli ordini di servizio”, come se il contratto al Teatro alla Scala imponesse anche l’anestesia emotiva. Il sovrintendente Fortunato Ortombina ha firmato il verdetto come un Robespierre in frac, servendo la testa della maschera ribelle su un vassoio d’argento alla premier.
E così, mentre il mondo assiste a un bagno di sangue quotidiano a Gaza, in Italia si silenzia chi non riesce a far finta di niente. Non un dirigente, non un burocrate distratto: una maschera. Una giovane donna con abbastanza coraggio da dire ciò che milioni pensano ma non osano pronunciare. Ma si sa, il teatro è finzione. E nella messinscena nazionale non c’è spazio per verità che turbano. Potrebbero rovinare l’applauso.
Intanto a Palazzo Chigi si brinda. Lo “spettacolo della democrazia” va in replica ogni giorno, purché nessuno improvvisi. E direzione e governo, come due amanti in un’operetta nera, ci ricordano che in Italia si può morire di lavoro, in mare, in silenzio ma non si può intonare un grido di umanità.
Guai a chi interrompe la coreografia dell’indifferenza, a chi turba l’ordine del rassicurante balletto delle coscienze dormienti. Chi parla troppo viene espulso dal cast. Perché oggi la libertà di parola è concessa solo se resta muta. Sipario.