Eccoci di nuovo con la grande epopea dell’ex Ilva, oggi elegantemente ribattezzata Acciaierie d’Italia, che fa tanto multinazionale chic, ma con le fondamenta arrugginite e le casse piene solo di cigolii. A Taranto l’altoforno 1 va a fuoco e il governo, con l’agilità di un bradipo ferito, scopre che forse, ma proprio forse, non si raggiungerà quella mitica “piena decarbonizzazione” promessa, sbandierata, ma mai nemmeno imboccata.

Il ministro Urso, con la drammaticità di chi ha appena assistito al naufragio del Titanic su Rete 4, ci informa che l’incendio compromette la produzione. Davvero? Ma che sorpresa! Nessuno poteva immaginare che affidare un impianto strategico nazionale a una gestione fallimentare e indecisa avrebbe portato a questo. E intanto, 3.926 lavoratori in cassa integrazione. Come sempre, chi paga è l’operaio, che resta a casa con uno stipendio ridotto e un futuro evaporato più in fretta del vapore degli altoforni.

Erano pronti a passare da due a quattro milioni di tonnellate prodotte. Ora, l’unico dato che cresce è quello degli ammortizzatori sociali. Altro che rilancio! La decarbonizzazione è diventata decapitazione: dei diritti, dei posti di lavoro, delle prospettive. E se l’azienda parla di “cassa integrazione coerente con la fase attuale”, i lavoratori leggono: abbandono programmato.

Ma tranquilli, ci sarà una nuova istanza al ministero del Lavoro. Un altro documento, un’altra riunione, un altro giro di parole. Perché in Italia le emergenze non si risolvono: si gestiscono, cioè si trascinano finché non diventano croniche. Come a Taranto, dove la ruggine ha ormai corroso perfino la dignità della politica industriale.