I fratelli Carlo e Nello Rosselli vengono uccisi - molto probabilmente per ordine dei servizi segreti italiani - il 9 giugno 1937 a Bagnoles-de-l’Orne, località a nord della Francia, da alcuni militanti di un’organizzazione di estrema destra francese. Nel bosco di Couterne l’auto dei due fratelli si ferma per soccorrere una macchina apparentemente in panne. È un agguato e Carlo e Nello Rosselli vengono barbaramente uccisi a pugnalate e revolverate.

Si trovavano in Normandia perché Carlo vi soggiornava per ricevere cure termali, dopo essere andato in esilio per evitare le persecuzioni fasciste e aver combattuto nella Guerra civile spagnola (“Oggi in Spagna, domani in Italia” diventerà il motto degli antifascisti italiani, ripreso dalla frase “Oggi qui, domani in Italia”, pronunciata da Carlo Rosselli a Radio Barcellona. “Dalla Spagna guadagnerà l’Europa. Arriverà innanzi tutto in Italia, così vicina alla Spagna per lingua, tradizioni, clima, costumi e tiranni. Arriverà perché la storia non si ferma, il progresso continua, le dittature sono delle parentesi nella vita dei popoli, quasi una sferza per imporre loro, dopo un periodo d’inerzia e di abbandono, di riprendere in mano il loro destino”).

Carlo e Nello, entrambi storici, avevano 37 e 36 anni. Avevano origini ebraiche e, sia per parte di madre che per parte di padre, provenivano da due famiglie da sempre attive politicamente e vicine agli ideali repubblicani risorgimentali. Soprattutto Carlo, oltre a caratterizzarsi come studioso e teorico, fu anche un uomo d’azione (tra gli altri organizza, insieme a Sandro Pertini, la fuga in motoscafo da Savona in Corsica per Filippo Turati)

Saranno sepolti nel cimitero monumentale parigino di Père-Lachaise, ma nel 1951 i familiari ne trasleranno le salme in Italia, nel Cimitero Monumentale di Trespiano a Firenze. Nello stesso cimitero sono sepolti Ernesto Rossi, Piero Calamandrei, Spartaco Lavagnini e Gaetano Salvemini, anni dopo indignato protagonista di una strana avventura.

Diciotto anni dopo la morte di Carlo e Nello, il 2 novembre 1955, Firenze viene tappezzata durante la notte da manifesti che, con intenti provocatori, accusano Giuseppe Di Vittorio di essere stato il mandante dell’assassinio. Della vasta riprovazione suscitata dal volgare attacco al segretario confederale si fa interprete Gaetano Salvemini con una lettera su Il Mondo.

“Quel giornale murale – scrive Salvemini, fra l’altro professore di Nello nell’università del capoluogo toscano – è stato affisso dopo aver ottenuto il visto del signor questore di Firenze. Io presento ora al signor questore la seguente rispettosa domanda: se dei comunisti gli chiedessero il visto per un giornale murale in cui fosse affermato che Cesare Battisti fu impiccato da un boia che si chiamava Alcide De Gasperi, o che il ministro Scelba non può avere a tiro di mano una ragazza senza farle fare un figlio entro nove mesi, il sullodato signor questore darebbe l’autorizzazione?”.

Ebbene, prosegue lo storico, “il comunista Di Vittorio non ha diritto di essere rispettato nel suo onore non meno di De Gasperi buonanima, e di Scelba, che Dio gli dia cent’anni di buona salute? Se vi fosse in Italia libertà di stampa incondizionata, cioè se ognuno potesse appiccicare sui muri i giornali murali che meglio crede, il questore di Firenze non ci entrerebbe né punto né poco. Nel caso in questione penseremmo noi, amici di Carlo e Nello Rosselli, o penserebbe Di Vittorio, a mettere le cose a posto (…). Ma in Italia la libertà di affissione non c’è; il questore deve dare il suo visto ai giornali murali (…). Ho aspettato che qualcuno protestasse prima di me e mi risparmiasse la fatica di scrivere questa lettera. Ma visto che nessuno si muove, consenti, caro Pannunzio, che almeno su Il Mondo qualcuno dia segno di vita”.

L’indignazione pressoché generale per l’ennesimo nuovo esempio di malcostume politico costringe il ministro degli Interni a intervenire, facendo sequestrare il manifesto. Di Vittorio ringrazia Salvemini per il suo pungente intervento e ne segue tra i due uomini un affettuoso scambio di lettere.

Così l’anziano antifascista risponde a una delle missive speditegli dal leader della Cgil: “Carissimo Di Vittorio, sono assai contento di apprendere dalla tua lettera che tu attendevi la mia sfuriata. Questo vuol dire che mi ritieni ancora vivo, sebbene io mi senta ormai più che quasi morto. Per scrivere bisogna che io sia preso da un eccesso epilettico, e questo ormai succede più raramente che ‘quando ero paggio del Duca di Norfolk’. Ma quella bricconata fiorentina mi avrebbe dato un attacco epilettico coi fiocchi anche se fossi stato morto e sotterrato. Tu dovevi disprezzare quelle sudicerie. Eravamo noi che dovevamo farci vivi. Ma siamo stati pochi a farci vivi!”.

Ormai, a giudizio di Salvemini, nell’Italia del dopoguerra “nessuno più si sdegna di niente”. “Tutto – commenta rassegnato – passa liscio come una lettera alla posta. Questo è il fenomeno che più mi sgomenta oggi. Sì, il governo, quando vuole, può arginare il malcostume. Ma chi si muove per svegliarlo quando dorma? Voi vi muovete, ma vi muovete sempre, e nessuno bada a voi. Siamo noi che ci dobbiamo muovere, al momento opportuno. Ma noi ci guardiamo l’ombelico. Di quante cose mi piacerebbe parlare con te a cuore aperto! Ma i miei 82 anni mi incatenano qui: ad allontanarmene farei dei guai. Mille buoni saluti, e ti prego, non darmi del ‘Lei’. Non ho ancora fatto nessuna cattiva azione (a parte la mia ‘ideologia’)”.