(Tredicesima puntata del nostro viaggio tra coronavirus e scrittori)

Ci vuole sempre una separazione dagli altri intorno a chi scrive libri.

Lo dice Marguerite Duras, nei suoi pensieri raccolti da Feltrinelli in Scrivere.

È così, per chi scrive: stare soli, concimando la propria scrittura di un silenzio che non è vuoto, ma il circondario dove si raccoglie l’immaginario per creare storie.

Gli altri sono tutto ciò che sta prima della storia. Il nostro mondo, la nostra normalità, la ritualità del nostro stare in vita – è tutto ciò che vive prima della storia.

Nessuna storia può venire al mondo senza il mondo.

Quindi, l’isolamento dello scrittore è solo mentre scrive; è nell’atto creativo che la scrittura mette in campo la separazione di cui parla Duras: dentro quella separazione possiamo vedere gli altri.

Quello che sta accadendo in questi giorni di isolamento forzato, ci sta permettendo di scrivere tutti – in senso molto metaforico. Ci sta permettendo – o potrebbe permetterci, se riusciamo a cogliere il virtuosismo di questo shock – di guardare gli altri, di guardare noi stessi, e il mondo in cui viviamo, nello stesso isolamento privilegiato che ha lo scrittore. Da questa separazione possono emergere metafore, illusioni, comprensioni e spiritelli, spifferi inediti in cui ricomporre il mondo.

Non è questo, scrivere storie?

Io credo di sì. Io credo che stiamo scrivendo tutti, e, come succede con i libri e gli scrittori, c’è chi scriverà meglio, chi peggio.

Ora come ora questo isolamento non mi permette di scrivere granché.

Il tempo in famiglia, coagulato in salotto e non frazionato fuori le mura domestiche, si riduce come il fiato in una corsa. Soprattutto quando si hanno figli piccoli, il tempo viene fagocitato, risucchiato, e il lavoro diventa un’apnea. Sembra un paradosso, ma si riescono a fare molto, molte meno cose di prima perché i bambini, per fortuna, non conoscono tempo. Nulla in confronto a chi deve rischiare ogni giorno per raggiungere il lavoro, o, addirittura, per chi lavora in ospedale. Noi quarantenati in smart working godiamo di un tempo e di una sicurezza che ci permette di interrompere la vita solo a metà.

Però è anche vero che chi fa un lavoro come il mio, creativo, che richiede un isolamento particolare in cui raccogliersi, isolarsi col cervello, entrare in una specie di trance immaginifica, diventa più complicato se un bambino ti si arrampica addosso.

Ma, forse, per chi è abituato a scrivere e a passare molto tempo da solo come me, questo tempo va ricalibrato, va solo normalizzato secondo altri parametri, perché la solitudine ci appartiene come una virtù, e non come un fallimento.

Mi manca tutto della vita di fuori. Mi manca l’idea, la libertà di poter uscire a prendermi un caffè con un amico, anche se poi non lo farei davvero. Ma questa mancanza è nutrita tutti i giorni da qualcosa di intimo che riscopro nel silenzio di Roma, che più che un silenzio mi sembra un respiro.

Allora, visto che sono una maniaca del controllo, sto provando a darmi una disciplina, perché è così che scrivo da sempre: con estro, e con disciplina. Senza, i libri non si scrivono.

Risveglio. Due ore di lavoro generale (recensioni, consegne, preparazione delle lezioni on-line).

Tempo libero per mia figlia.

Due ore di lettura dopo pranzo mentre mia figlia vede un po’ di cartoni e gioca per i fatti suoi.

Tempo del gioco. Tempo del gioco. Lezioni on-line nel tardo pomeriggio. Tempo del gioco ancora.

Scrittura in tarda serata, dalle 23.00 fino a notte inoltrata.

Ecco, questo il mio piano. Nel mio piano quelle ore lì – quelle finali – in cui mi dedico alla scrittura nella notte dilatata della quarantena, sono le più belle, quelle in cui niente è accaduto e tutto quello che accade è nella storia che sto scrivendo.

Da quando è cominciato il mio isolamento, questo programmino non l’ho mai ancora rispettato.

GLI INTERVENTI PUBBLICATI:
Ferracuti Funetta Gazoia | Janeczek | Falco 
Scego l Santoni l Pecoraro Sarchi
Biondillo | Ginzburg | Targhetta