Tratto dal numero 4/2018 di Specchio Internazionale. Articolo originale pubblicato su “Project Syndicate”

Per l’euro si sta forse avvicinando una nuova crisi. La terza economia dell’eurozona, l’Italia, ha scelto un governo che, nella migliore delle ipotesi, può essere definito euro-scettico. Nessuno dovrebbe esserne sorpreso: la scelta dell’Italia è un altro prevedibile episodio della lunga saga che ha avuto al suo centro un accordo valutario abborracciato, in cui la potenza dominante, la Germania, impedisce le riforme necessarie e, oltre a insistere su politiche che inaspriscono i rapporti tra i diversi Paesi, usa una retorica che sembra fatta apposta per infiammare gli animi.

L’Italia non va bene fin dal lancio dell’euro. Il suo Pil reale nel 2016 è stato lo stesso del 2001. Ma è l’eurozona nel suo insieme a non essere andata bene. Dal 2008 al 2016, il Pil reale è cresciuto solo del 3% in totale. Nel 2000, un anno dopo l’introduzione dell’euro, l’economia Usa era solo del 13% più grande di quella dell’eurozona. Nel 2016 è stata più grande del 26%. Dopo una crescita reale intorno al 2,4% nel 2017 – non sufficiente a invertire il danno di 10 anni di difficoltà – l’economia dell’eurozona sta di nuovo vacillando.

Se un Paese non va bene, la colpa è del Paese; se molti Paesi non vanno bene la colpa è del sistema. E come ho scritto sul mio libro “L’euro: come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa”, l’euro sembra essere stato fatto quasi apposta per fallire. Ha tolto ai governi i principali meccanismi di aggiustamento (interessi e tassi di cambio) e, anziché creare nuove istituzioni per aiutare i Paesi a far fronte alle diverse situazioni critiche in cui si trovano, ha imposto nuove restrizioni – spesso basate su teorie economiche e politiche screditate – sul deficit, il debito e persino sulle politiche strutturali.

Si riteneva che l’euro avrebbe portato una prosperità condivisa, che avrebbe favorito l’aumento della solidarietà e portato avanti l’obiettivo dell’integrazione europea. In realtà, ha fatto esattamente il contrario, rallentando la crescita e seminando discordia.
Il problema non è la mancanza di idee su come andare avanti. Il presidente francese Emmanuel Macron, in due discorsi, lo scorso settembre alla Sorbona e a maggio quando ha ricevuto il Premio Carlo Magno per l’unità europea, ha delineato una visione chiara del futuro dell’Europa. Ma la cancelliera Angela Merkel ha di fatto rigettato le sue proposte, suggerendo, tra le altre cose, somme di denaro ridicolmente modeste per investimenti in aree che ne hanno urgente bisogno.

Nel mio libro, ho insistito sull’urgente necessità di un sistema comune di garanzia dei depositi, per evitare fenomeni di bank run (fughe) dai sistemi bancari dei Paesi più deboli. La Germania sembra riconoscere l’importanza di un’unione bancaria per un buon funzionamento di una moneta unica, ma come Sant’Agostino la sua risposta è: “O Dio, rendimi puro, ma non ancora” L’unione bancaria sembra essere una riforma da intraprendere in futuro, non conta quanti danni si procurano nel presente.

Il problema centrale di un’area valutaria è come correggere i disallineamenti del tasso di cambio come quelli che stanno colpendo ora l’Italia. La risposta della Germania è di caricare l’onere sui Paesi deboli, quelli che già soffrono di alti livelli di disoccupazione e di bassi tassi di crescita. Sappiamo dove porta tutto questo: verso più dolore, più sofferenza, più disoccupazione e anche a una crescita più lenta. E anche se alla fine la crescita riprendesse, il Pil non raggiungerebbe mai il livello che avrebbe raggiunto se si fosse perseguita una strategia più sensata. L’alternativa è spostare un quota maggiore dell’onere di aggiustamento sui Paesi forti, con retribuzioni più alte e una domanda più sostenuta, supportata da programmi pubblici di investimento.

Abbiamo già visto diverse volte il primo e il secondo atto di questa commedia. Viene eletto un nuovo governo, che promette di fare un lavoro migliore nei negoziati con la Germania per mettere fine all’austerità, disegnando un programma di riforme strutturali più ragionevole. Ma se i tedeschi non si spostano per niente dalle loro posizioni, tutto ciò non serve a niente. Per questo il sentimento anti-tedesco aumenta e qualsiasi governo, sia di centro-sinistra che di centro-destra, che accenni alle riforme necessarie viene cacciato via. Per questo i partiti anti-establishment vincono. E aumenta il caos.

Nell’area dell’euro, i leader politici stanno entrando in uno stato di paralisi: i cittadini vogliono rimanere nell’Ue, ma vogliono anche la fine dell’austerità e il ritorno alla prosperità. Viene detto loro che non possono avere entrambe le cose. Sempre nella speranza di un cambio di atteggiamento da parte dei Paesi del Nord Europa, i governi instabili cercano di mantenere la stessa rotta, mentre le sofferenze delle loro popolazioni aumentano.

Il governo a guida socialista del primo ministro portoghese António Costa rappresenta un’eccezione a questo modello. Costa è riuscito a riportare il suo Paese alla crescita (2,7% nel 2017) e a ottenere un alto grado di popolarità (nell’aprile 2018 il 44% dei portoghesi pensava che il governo stesse andando al di sopra delle aspettative).

L’Italia potrebbe rivelarsi un’altra eccezione, sebbene con caratteristiche molto diverse dal Portogallo. Qui il sentimento enti-europeo è presente sia nella destra che nella sinistra. Il partito di estrema destra della Lega – attualmente al governo – potrebbe veramente mettere in pratica quel tipo di minacce che i neofiti di altri Paesi non hanno avuto il coraggio di fare. L’Italia è abbastanza grande, con economisti sufficientemente bravi e creativi per gestire un’uscita de facto – istituendo nei fatti una doppia valuta flessibile che potrebbe favorire un ritorno della prosperità. Questo violerebbe le regole dell’euro, ma l’onere di un’uscita de jure, con tutte le sue conseguenze, sarebbe spostato su Bruxelles e Francoforte, con l’Italia a quel punto interessata a una paralisi dell’Ue per evitare la rottura finale. Qualunque sia il risultato, l’eurozona sarebbe ridotta a brandelli.

Non si deve arrivare a questo. La Germania e gli altri Paesi dell’Europa settentrionale possono salvare l’euro mostrando più umanità e più flessibilità. Ma, avendo visto i primi atti di questa commedia, non conto su di loro per modificare la trama.

Joseph Stiglitz è professore alla Columbia University di New York, nel 2001 Premio Nobel per l’economia

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