“Al di là della propaganda del governo, l'economia italiana non riprende e si prefigura una grande stagnazione. In verità, la ripresa non è mai cominciata e recuperare i livelli pre-crisi sarà molto difficile. Il voto pro Brexit è quel che manca all'Europa, perché il Regno Unito non ha subito l’austerity, non è dentro l'area euro, non è nel fiscal compact o nell'Euro plus. Il problema è che la governance economica europea non rappresenta una vera alternativa a un processo di crescita e sviluppo; dunque, è quello che ha fatto dire oltremanica restiamo inglesi e basta". Così Riccardo Sanna, coordinatore Area politiche di sviluppo Cgil ai microfoni di RadioArticolo1.

 

 

“Il sistema bancario europeo è molto fragile – ha affermato l’esponente Cgil –, perché lo è il sistema di regole d’intervento a sostegno dell'economia, e di conseguenza, anche della finanza al servizio dell'economia. Le banche sono sotto attacco perché sanno benissimo che le regole Ue non permettono di rafforzare i capitali nè la tenuta del sistema bancario nazionale ed europeo. Il primo impatto della Brexit si è avuto sulla sterlina, ma subito dopo sulle banche di tutto il continente. Anche qui, il problema è l'infrastruttura di regole e la governance economica europea che non dà respiro nè speranza, ma è di nuovo vittima di oligarchie e tecnocrazia. Il nostro sistema bancario è abbastanza solido in una fase ordinaria, ma la crisi è un qualcosa di strutturale, per cui servono interventi straordinari, non a caso, in queste ore, anche premier e ministro dell'Economia stanno tentando di avere l'autorizzazione per creare un grande scudo di salvataggio delle banche. Il problema è che anche se l'avessimo, un minuto dopo come faremmo a far ripartire l'economia?”

“Da tempo, la Cgil ha detto che non si poteva più contare sulla domanda estera – ha aggiunto il sindacalista –, per tanti anni il traino della crescita italiana prima della crisi. Così come, da tempo, abbiamo detto che la crisi di domanda globale si sommava a una crisi dell'offerta della qualità delle produzioni, e questo si vede nel grado di penetrazione delle importazioni, cioè il fatto che le nostre imprese non riescono a rispondere ai consumi e alla domanda nazionale, per cui il governo ha cercato di riorientare l'economia verso la domanda interna, erogando incentivi a pioggia, con tantissime risorse disperse. Basti pensare agli sgravi contributivi per le assunzioni, che si sono rivelate nella maggior parte dei casi trasformazione di contratti a tempo determinato, con pochissima occupazione aggiuntiva. In questa fase, il problema sta negli investimenti, che le imprese non fanno”.

“Gli incentivi non sono la stessa cosa degli investimenti – ha proseguito Sanna –, perché l'incentivo è un credito a prescindere dal risultato, mentre l’investimento è un vincolo, un allargamento della base produttiva, che si è ridotta di oltre venti punti dal livello del 2007, per cui dare incentivi non garantisce un buon esito. Sono stati programmati e spesi oltre 18 miliardi, ma il risultato è poco più di 100.000 posti davvero aggiuntivi: se facciamo una banale divisione, ci accorgiamo che si potevano spendere assai meglio quei 60.000 euro per occupato aggiuntivo. Il punto sta nella capacità dello Stato d’intervenire in economia e generare la giusta via degli investimenti, creando settori e mercati adeguati ad agganciare quell’innovazione che in tutto il mondo sta producendo nuovi posti di lavoro e ne distrugge degli altri; ecco, allora, che resta del tutto attuale anche la nostra idea d’investire nei beni comuni, nell'innovazione sociale, ritrovando così l'obiettivo della piena occupazione”.

“Il problema è che lo scenario globale è molto incerto – ha spiegato il dirigente sindacale  –, ci sono forti tensioni geopolitiche, c'è una svalutazione di materie prime e beni energetici, che è ciò che trascina di più in deflazione. Però, è anche vero che la domanda estera netta italiana mediamente è più bassa, e in termini aggregati è negativa; abbiamo delle eccellenze, ma non bastano per incidere sulle esportazioni, mentre la domanda interna, che dovrebbe compensare, ricomponendo la crescita nazionale, non lo fa. Quindi, domanda estera meno 0,2%, domanda interna 0,2%, siamo pari, stiamo a zero, e ciò che trascina quel  ‘rimbalzino’ congiunturale del Pil sono le scorte, dunque, non abbiamo bisogno di nuovi consumi, abbiamo bisogno di nuovi investimenti. Ciò che manca è una vera politica industriale che guardi al futuro e crei occupazione: in altri Paesi è stata fatta e la disoccupazione è stata dimezzata. Naturalmente, tutto questo richiede di scommettere sul lavoro, che dovrebbe essere un progetto europeo. Se lo si facesse, si scongiurerebbero tutti i nazionalismi, compreso quello che ha portato alla Brexit, e in Italia lo si può fare, bisognerebbe solo utilizzare meglio le risorse a disposizione”.

“Il nodo fondamentale è la dinamica salariale ferma da troppo tempo, – ha osservato ancora Sanna – come sostengono anche Ocse e Fmi. Il governo non lo ha capito e tenta d’indebolire l’istituto del contratto collettivo nazionale di lavoro - che finora ha garantito quei pochi consumi che abbiamo -, e il neopresidente di Confindustria propone lo scambio salario-produttività. In realtà, i salari reali in Italia sono aumentati molto meno che in passato, e non riescono a scongiurare la deflazione. Questo è un messaggio che ci viene anche da Bce e Banca d'Italia. Il punto su cui sbaglia Boccia è che rovescia il paradigma, ci vuole produttività da redistribuire sul salario, ma se si aumentano i salari reali, si genera anche maggiore produttività. Nel 2015 la produttività è stata zero, secondo Confindustria il salario dovrebbe crescere zero? Direi di no, se aumentano i salari reali e aumenta l'occupazione, il modo per aumentare i redditi da lavoro, di sicuro avremo più investimenti. Quel che non funziona da noi è la produttività del capitale, non quella del lavoro”.

“Bisogna tornare al Piano del lavoro della Cgil – ha concluso Sanna –, investire sul lavoro, attraverso investimenti pubblici che generano investimenti privati. Puntare nei settori in cui l'innovazione da sola non genera abbastanza posti di lavoro, dove c'è una rivoluzione tecnologica. Occorrono regole, politiche, fondi pubblici da indirizzare verso la green economy, i beni comuni - welfare, patrimonio artistico-culturale, ambiente - e una ricaduta fortissima nei settori privati, moltiplicando ricchezza e di conseguenza posti di lavoro. Si pensi alla qualità delle costruzioni, del trasporto pubblico integrato, in generale dei servizi pubblici. Tutto ciò significa generare uno shock nell'economia attraverso l’intervento pubblico, che può moltiplicare investimenti, capitale, consumi, posti di lavoro, e di conseguenza aiutare le imprese a crescere. Un intervento pubblico del genere dovrebbe avere una politica economica ad hoc. Noi registriamo con favore che con la contrattazione territoriale si fanno tantissimi accordi. Quindi, a livello di economie locali vi sono forti istanze di sviluppo, ma non basta, bisogna farlo a livello nazionale, se non europeo. Però, non ci arrendiamo e siamo sicuri che, oltre all’analisi, non sbagliamo nemmeno le ricette”.

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