Le Giornate del lavoro di Lecce hanno dedicato ampio spazio al ricordo dell’ex segretario generale della Cgil Luciano Lama, a vent’anni dalla sua scomparsa. Un variegato programma di iniziative (rassegna di film, dibattiti, una “notte bianca”) che ha toccato il suo punto più alto con la mostra “Luciano Lama, il sindacalista che parlava al Paese”, realizzata dall’Archivio storico della Cgil, dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio e dall’Associazione Luciano Lama. Quello che segue è il ricordo personale del giornalista Bruno Ugolini

Luciano Lama aveva una grande qualità: sapeva abbandonare il cosiddetto “sindacalese”, un linguaggio spesso tecnico o burocratico. I suoi discorsi, i suoi interventi non volevano farsi capire solo dai gruppi dirigenti sindacali, o dai dirigenti di partiti e governi. Parlava a tutti, al di là di ogni confine ideologico, parlava al Paese. Oggi potrebbe essere considerato davvero un “grande comunicatore”. Lo si capisce bene anche vedendo come ancora ai nostri giorni egli venga citato, usato, spesso strumentalmente, da commentatori di ogni orientamento. Magari per cercare di contrapporlo agli attuali dirigenti della Cgil. Chi lo ha conosciuto bene può capire che egli, anche se magari persuaso di ritardi ed errori del movimento sindacale, non avrebbe mai avallato un’operazione di discredito nei confronti di un’organizzazione, la Cgil, con la quale manteneva un legame enorme, anche quando aveva imboccato altre attività.

FOTO, la mostra a Lecce
Il sindacalista che parlava al paese, I.Romeo

Era stato definito, da Walter Tobagi, il giornalista del Corriere della Sera vittima delle Brigate Rosse, in un libro del 1980 (“Che cosa contano i sindacati”, Rizzoli) come “l’uomo-pesca”, il rivoluzionario riformista. Per spiegarlo Luciano Lama si rifaceva alla sua terra, l’Emilia Romagna: terra, appunto, di rivoluzionari-riformisti che non avevano aspettato di entrare in una fatidica stanza dei bottoni per tentare di cambiare le cose. Un sindacalista moderato, viene ancorato oggi definito, magari con l’intento di accusare di massimalismo i suoi eredi. Davvero moderato? Spiegava, appunto Lama: “C’è gente come la pesca: tenera di fuori e dura di dentro. C’è gente come la noce: dura di fuori e tenera di dentro. Io cerco di essere come la pesca”. Una parabola che era anche un’invettiva nei confronti di tanti che, anche nel sindacato, predicavano la lotta per la lotta, disdegnosi di trattative, accordi e compromessi, per poi franare e firmare la resa, duri e fragili come noci. Gianni Agnelli dirà di lui: “È un animale addestrato al combattimento”.

Io l’ho conosciuto, la prima volta, in una vacanza al mare nei primi anni sessanta. Era in compagnia della moglie e delle sue due (allora) bambine. Ricordo un suo commento aspro a un editoriale de l’Unità che poneva come obiettivo “l’abolizione del profitto”. Un obiettivo davvero, come dire, un po’ troppo avanzato. L’ho ben presente poi, Luciano, nel giugno del 1969 al congresso Cgil di Livorno. Prende la parola con la sua voce tonante, il suo portamento aitante (“Il più bello dei marxisti famosi”, aveva scritto Epoca), dopo Vittorio Foa e pone nel discorso una potente carica di ottimismo nei confronti di un possibile progetto di unità sindacale. È una scelta audace, diversa da quella operata nella relazione dal misurato e paziente Agostino Novella. È stato questo un tratto della sua personalità: la capacità di abbandonare antiche certezze, per abbracciare strade nuove. Era stato così quando, allievo di Di Vittorio, non aveva esitato, nella riflessione sulla sconfitta alla Fiat negli anni cinquanta, a intraprendere la strada del “ritorno in fabbrica”, attraverso la contrattazione aziendale, indicata da Di Vittorio, Foa, Trentin. Senza per questo mai tagliare il cordone ombelicale con quella concezione-madre che lo accompagnerà per tutta l’esistenza. Dirà nel 1974: “In Italia un sindacato che non faccia una politica per i disoccupati e che non li consideri parte di se stesso è, necessariamente, un sindacato non unitario e non di classe”.

L’ho visto in altri momenti delicati e difficili, come durante la rivolta per le pensioni, nel febbraio del 1968. Io facevo un po’ la spola tra via delle Botteghe Oscure, dove c’era l’ufficio di Ferdinando Di Giulio, e la sede sindacale di corso d’Italia. Ed ecco Luciano Lama, intento ad ascoltare, a polemizzare, a preparare la traduzione della spinta di base in uno sciopero generale indetto per il 7 marzo. È lo stesso Lama che rivedremo in tante altre occasioni, come quando fa sua la battaglia per l’elezione dei consigli di fabbrica in tutti i luoghi di lavoro; come quando firma con Agnelli l’accordo sul punto unico di contingenza; come quando cerca di spiegare che la cosiddetta politica dell’Eur non è solo una mossa sacrificale, bensì un’occasione di trasformazione; come quando affronta gli studenti all’università di Roma nel 1977; come quando parla agli operai di Mirafiori nel 1980 per tentare di convincerli che 35 giorni di lotta hanno un epilogo doloroso, ma accettabile; come quando difende in tv, polemizzando con il caro amico e compagno Ottaviano Del Turco, un referendum sulla scala mobile che non aveva condiviso... È lui, l’uomo-pesca, morbido fuori, duro dentro.

Quella che Luciano Lama lascia è una concezione pragmatica del sindacato. La sua polemica è stata sempre rivolta nei confronti di chi vedeva il ruolo del dirigente sindacale solo come quello del raccoglitore delle istanze della base. Noi non siamo una specie di “sindacato-spugna” diceva. E continuava: “La funzione del sindacato si risolve in una serie di lotte, ma anche di compromessi successivi. Ogni lotta finisce di necessità con un compromesso... Il sindacato più forte è quello che fa l’accordo migliore... ”. Spesso alcune sue affermazioni categoriche piombavano come acqua gelida sulle platee dei quadri sindacali. Come quando (nel congresso della Camera del lavoro di Milano, nel l973) ebbe a dire: “Un’azienda fallita non è socialista: è solamente un azienda chiusa”.

Spesso Luciano Lama è stato visto quasi in contrapposizione con altri dirigenti della Cgil, come Sergio Garavini e Bruno Trentin, considerati alla sua sinistra. Eppure Bruno Trentin ha saputo dare un giudizio complessivo sull’uomo al quale era stato accanto per tanti anni. Con queste parole: “Molte cose ci hanno diviso durante la sua direzione della Cgil e dopo; e certamente le nostre ansie erano diverse. Ma egli resta il dirigente migliore che la Cgil poteva esprimere nel lungo periodo della sua reggenza e ha segnato una parte importante della nostra vita. Certamente della mia”. E c’era anche in questa riflessione una risposta a chi soleva definire Lama come un riformista “moderato”. Diceva infatti Trentin: “Non c’è dubbio che, nella sua passione civile per combattere le “ingiustizie” che feriscono il mondo del lavoro, come lui lo percepiva e lo conosceva, con una visione molto datata, e nella sua pervicace ricerca del dialogo e dell’intesa, c’era, più che il classico cliché del riformista moderato, l’ansia di fare assolvere al movimento operaio e al sindacato un ruolo egemonico nella difesa della democrazia e nella costruzione dell’unità nazionale. Di qui la sua angoscia di non essere ‘tagliato fuori’ dal cambiamento, di non essere marginalizzato dalle trasformazioni in corso e di garantire in ogni circostanza al sindacato un ruolo da protagonista e non da spettatore”.

Sono parole che meglio di altre possono far capire l’eredità di Luciano Lama. Anche in questa nostra epoca assillante, in cui il ruolo del sindacato è negato e il sindacato stesso stenta a ricostruire una sua identità, adeguata ai nuovi tempi. E magari si innalzano, a fini di parte, i ritratti di Lama, come quelli di Berlinguer o Pertini o di altri che hanno fatto grande la sinistra italiana. Ma i pensieri di Lama, le sue idee, possono comunque risultare utili per ritrovare fiducia e speranza in un rinnovamento costruttivo. Per non essere “tagliati fuori”. Per poter dire: la Cgil è stata qualcosa di grande e può tornare a esserlo.