L’80 per cento dei lavoratori del settore lapideo denuncia un infortunio, ma sulle malattie professionali pesa di più la ritrosia per la paura di perdere il posto di lavoro, nonostante una buona percentuale dichiara di aver segnalato al medico competente della propria azienda alcune patologie. Sono i primi risultati di un’indagine a campione che l’Inca, insieme alla Fillea, ha avviato circa un anno fa per conoscere realmente le condizioni di lavoro di coloro che sono impegnati nelle cave di marmo e nei processi produttivi di trasformazione. Un settore tra i più rischiosi sotto il profilo della salute e della sicurezza, ma anche strategico per la nostra economia: 40mila addetti in 11 siti produttivi, con un fatturato nel 2015 di quasi tre miliardi di euro di esportazioni, aumentato del 25 per cento rispetto allo scorso anno.

L’indagine di Inca e Fillea ha coinvolto 500 lavoratori dei siti di Tivoli, Massa Carrara, Lucca, Trapani, Foggia e Verona, ai quali è stato sottoposto un questionario, messo a punto dai medici legali del patronato della Cgil. “L’obiettivo di questo progetto – spiega Silvino Candeloro, del collegio di presidenza dell’Inca – è di avviare un percorso che giunga a rendere strutturale il nostro impegno per combattere il fenomeno drammatico delle malattie professionali, fortemente sottostimato. I risultati dell’indagine dimostrano l’urgenza di un’azione congiunta, Inca e Fillea, per sviluppare una nuova consapevolezza e una nuova cultura tra i lavoratori, sconfiggendo l’atteggiamento omertoso delle aziende e rendere più efficace l’attività di tutela del patronato e di negoziazione del sindacato”.

E che ci sia la necessità di un intervento nel settore lo dimostrano i dati di questa prima indagine. Le visite periodiche, cui sono sottoposti obbligatoriamente i lavoratori, rivelano una realtà molto difficile: il 25 per cento degli intervistati dichiara di essere stato raggiunto da un giudizio di inidoneità al lavoro pronunciato dal medico competente, mentre il 75 per cento è risultato ancora idoneo. Nonostante le limitazioni prescrittive igienico-sanitarie, questi lavoratori continuano a svolgere la stessa attività di prima e con orari di lavoro che vanno oltre i limiti previsti dal contratto collettivo nazionale: 9, anche 10 ore al giorno, pari a oltre 45 ore settimanali. Che si tratti di lavorazioni molto pericolose è opinione ampiamente condivisa: i dati sugli infortuni sono una realtà. Ma non ci sono soltanto fratture derivanti da cadute o ferite da taglio, soprattutto per coloro che devono tagliare il marmo.

Le malattie professionali sono molto diffuse, ma poco si fa per farle emergere, con la conseguenza che i riconoscimenti delle tutele Inail sono riduttive. Ricorrenti sono patologie a carico del rachide, in particolare lombo sacrale, nonché malattie acute e croniche a carico del segmento mano-braccio: spalla, gomito e polso (sindrome cuffia dei rotatori, epicondilite, tunnel carpale, tendinite del sovraspinoso). Tutte malattie correlate con età e anzianità lavorativa. Nonostante i lavoratori dichiarino di essere dotati di dispositivi di prevenzione individuale (cuffie, guanti e scarpe antinfortunistiche), molti di loro segnalano disturbi a carico dell’udito – primo tra tutti l’ipoacusia, che continua a essere ricorrente – dopo una giornata di lavoro.

Ma la vera novità dell’indagine è che l’evoluzione tecnologica delle lavorazioni legate all’attività di estrazione e trasformazione del marmo, ha fatto emergere un fenomeno diffusissimo delle allergie. Solo a Verona, 29 lavoratori su 88 segnalano di soffrire di tali patologie. Ma non basta. Salvatore Lo Baldo, della segreteria nazionale Fillea Cgil, sottolinea un dato inquietante: l’importazione di “amianto blu”, il più pericoloso, che alcune imprese usano per mescolarlo con altre sostanze chimiche in modo da ottenere materiale lapideo artificiale. “Conosciamo nome e cognome delle aziende che vi ricorrono – afferma –. Per questo chiediamo una gestione collettiva delle malattie professionali”.

La Fillea non chiede di monetizzare le malattie professionali, “ma più attività repressiva, contro questi abusi, e più prevenzione, per evitare condizioni di rischio ancora più drammatiche”. Senza contare la rivendicazione di aggiornare la legge che regola l’estrazione mineraria, risalente addirittura al 1927, quando i materiali lapidei non erano considerati strategici per l’economica dello Stato (lo erano soltanto i minerali metallici, le argille e i combustibili). Da allora, la gestione dell’attività estrattiva è stata delegata alle Regioni e ai territori, con la conseguenza che “il fai da te” è diventato diffusissimo.