Detesto tutti coloro che in queste ore scrivono e parlano di Pietro Ingrao come di un sognatore, un acchiappa nuvole. Uno che conosceva solo la dimensione utopistica delle barricate e non la traccia del politico realista. Certo non aveva come massima aspirazione quella di entrare nella “stanza dei bottoni” come unico modo per tentare di cambiare lo stato delle cose.

Una convinzione condivisa da tanti, anche nel vecchio Pci. Compagne e compagni convinti che bastasse la loro presenza in quelle stanze per imprimere svolte decisive. Senza tener conto di una lezione venuta dalle drammatiche esperienze dei regimi socialisti, laddove si era convinti di avere dato “tutto il potere agli operai”. Lui aveva un chiodo fisso: coltivare la democrazia, rendere le masse protagoniste e non semplici spettatori chiamati ogni tanto al voto. Io ho conosciuto Ingrao quando quella “spinta propulsiva” prendeva piede in Italia e permeava l’iniziativa del sindacato.

Era la stagione dei consigli di fabbrica, dell’elezione dei delegati su scheda banca. Una “febbre salutare”, come l’aveva definita Bruno Trentin, e che con un effetto domino si espandeva nelle scuole, nei consigli di quartiere, tra le donne, in forme di partecipazione inedite. Con l’obiettivo, nei cicli produttivi, di ottenere “la liberazione non dal lavoro, ma del lavoro”, tracciando un percorso capace di cominciare a spezzare le catene oppressive che gravano sul mondo del lavoro salariato e che alla fine non giovano nemmeno alle fortune produttive.

Ingrao ebbe un forte ruolo nel Pci di quella stagione, altro che sognatore impotente. Un ruolo nel tentare di convincere gran parte dei dirigenti del partito di allora che non si trattava di pericolose forme di pansindacalismo. E che occorreva rompere la sudditanza del partito nei confronti del sindacato. C’è una bella testimonianza di tale presenza di Ingrao in un dibattito aperto su Rinascita nel 1967 sul ruolo, appunto, del sindacato.
 
 
Eravamo alla vigilia dell'autunno caldo, alla vigilia della conquista dello Statuto dei diritti dei lavoratori, alla vigilia della nascita degli organismi unitari di fabbrica, i Consigli. E Ingrao usava queste parole: “Dinanzi ai sindacati, che hanno testé concluso le loro lotte contrattuali, stanno oggi due modi di gestire il contratto: uno a carattere esteriore e formale, e sostanzialmente burocratico, un altro, che faccia della gestione del contratto la base di un rapporto nuovo con le masse operaie, di una loro profonda partecipazione, e che punti non solo sul rafforzamento della democrazia nel sindacato, ma faccia del sindacato il centro di promozione di una grande battaglia per la democrazia nella fabbrica".

Mentre altri passi dell’articolo affrontavano con vigore il problema dell’unità necessaria, dell’autonomia anche attraverso le incompatibilità tra cariche sindacali e politiche. Parole che aiutarono l’impegno di tanti nella Cgil, nella Cisl, nella Uil: da Santi a Lama, Trentin, Foa, Macario, Carniti, Benvenuto, Boni. E che portarono a un movimento, due anni dopo, che non fu certo un’esplosione incontrollata. Non furono poste “barricate”. Vennero conquistate nuove forme di democrazia, nuove condizioni di lavoro. Una gigantesca – questa sì – riforma, confluita in quello Statuto dei diritti dei lavoratori che oggi non si adegua ai tempi e alle nuove realtà, ma si tenta di smantellare in aspetti essenziali.

Io ho cominciato a conoscere il pensiero di Pietro Ingrao proprio in quegli anni, quando ero corrispondente dell’Unità da Brescia, una specie di capitale del ferro. Ricordo bene quell’undicesimo congresso del Pci che lo vedeva prima massicciamente applaudito (dalla platea) e poi sottoposto a veementi reprimende da parte di quasi tutti i dirigenti, a causa di quelle sue parole cocenti ("Non mi avete convinto"). Era la richiesta del “diritto al dissenso”, che per me, allora giovane cronista, consegnava emozionanti speranze. Apparivano come un segnale di apertura. Come del resto, a quell’epoca, mi erano sembrate certe prese di posizione di Giorgio Amendola tese a superare il fossato tra comunisti e socialisti. Per cui io, alle prime armi nell’antica sede della federazione comunista, un ex convento di suore, nella città dei Montini e dei Bazoli, ero un po’ ingraiano e un po’ amendoliano.

Anche se più tardi, a Milano, avevo sperimentato la presenza di un autorevole e potente settarismo dogmatico, indegnamente autodefinitosi seguace di Giorgio Amendola. Per costoro chi era in odore di “ingraismo” era da considerare un pericoloso estremista, da evitare e isolare, non certo da promuovere. Magari da contrapporre agli operai “stalinisti”. Eppure, fu proprio la tenacia di uomini come Ingrao che permise di non spezzare i ponti con il grande movimento prima degli studenti e poi degli operai negli anni sessanta-settanta e anche col mondo cattolico piú impegnato nella società. Permise di sconfiggere, nella sinistra, chi guardava con malcelata diffidenza chi era impegnato nel sollecitare l’esperienza dei consigli di fabbrica e dell’unità sindacale cresciuta dal basso.

Ecco perché ho amato Pietro Ingrao. Perché non aveva la sicumera del burocrate. E non penso che alla fine abbia perso tutte le sue battaglie e basta. È vero che quel movimento in cui credeva come fautore di democrazia si è affievolito, prima ferito dal terrorismo suicida, poi perso spesso in mille rivoli, anche a causa di imponenti rivolgimenti produttivi. Fino a oggi. Con quello stesso sindacato che, accerchiato da campagne che non ne chiedono un rinnovamento, bensì ne vorrebbero imporre un annientamento, stenta a far capire le proprie ragioni.

Tornano altre parole di Ingrao tratte da quello scritto su Rinascita: “Ma queste resistenze e incomprensioni saranno tanto meglio superate quanto più il sindacato disporrà di un potere reale nella fabbrica e nella società; quanto più insomma disporrà della forza e dell'autorità per motivare la sua autonomia, per renderla trascinante e obbligante, per scoraggiare e vanificare tutte le strumentalizzazioni. Il sindacato sarà tanto più forte di fronte alle possibili strumentalizzazioni da parte dei partiti quanto più saprà rendere operante ed effettiva la sua autonomia”.

Anche perché i fatti di ogni giorno rendono urgente una scesa in campo qui e in Europa. Perché c’è un mondo che si muove. Lo vediamo tutte le sere in potenti immagini televisive. Mostrano popoli interi che calpestano strade sconosciute. Donne e uomini che vorrebbero “condividere” e non solo avere un’elemosina. E che impongono cambiamenti profondi per tutti. Per superare diseguaglianze insostenibili, crepacci insopportabili.