Ben oltre la data di scadenza, l’Istituto per la previdenza sociale ha finalmente emanato la circolare numero 27 che definisce come accedere all’“esonero dal versamento dei contributi previdenziali a carico delle lavoratrici madri di tre o più figli”. Il commento di Daniela Barbaresi, segretaria confederale della Cgil, non può non rilevarlo: “La decontribuzione per lavoratrici con figli, una misura che è stata oggetto di grande propaganda da parte del governo, si trova a scontare ritardi inaccettabili, come la mancanza della circolare esplicativa dell’Inps”.

Un passo indietro è necessario. Fu Giorgia Meloni nel corso della conferenza stampa di presentazione della manovra 2024 ad affermare che “le donne che hanno tre o più figli hanno già dato molto al Paese” quindi, pensando a quali strumenti mettere in campo per affrontare l’inverno demografico, il governo aveva deciso di non far pagare alle mamme prolifiche i contributi previdenziali.

Si divide il Paese, si dividono le donne

È ormai evidente che Meloni e i suoi ministri non hanno proprio idea di cosa sia l’universalità. Non ne hanno tenuto conto quando hanno sostituito il Reddito di cittadinanza, non ne hanno tenuto conto quando hanno scritto il primo decreto attuativo della legge sugli anziani non autosufficienti. Non ne hanno tenuto conto nemmeno in questo caso: eppure le donne lavoratrici che hanno figli sono davvero poche anche perché, lo testimoniano diversi studi, sono quasi 50.000 le dimissioni registrate nel 2022 alla nascita di figli. La norma infatti divide lavoratrici da lavoratrici.

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Cosa prevede la manovra

Innanzitutto, pratica frequente di questo esecutivo, parliamo di una legge con la data di scadenza. La decontribuzione infatti vale solo per il 2024 per quante hanno due figli, fino al 2026 per chi ne ha di più. Poi riguarda le madri e non anche i padri, anche quanto magari i figli sono affidati a lui. Rileva infatti la segretaria: “Ancora una volta una misura tarata solo sulle madri come se la genitorialità fosse competenza esclusiva delle donne”. E non finisce qui, a dividere la platea sono anche i criteri necessari per averne diritto: “Il beneficio consiste nello sgravio del 100% fino al 2026 della quota contributiva obbligatoria a carico delle lavoratrici dipendenti a tempo indeterminato madri di tre o più figli, di cui uno minore di 18 anni, o nel solo 2024 per le madri di due figli di cui uno con età inferiore ai 10 anni”.

Perché un solo figlio, ancorché piccolo, non da diritto al beneficio se si vuole davvero incentivare la genitorialità? La risposta, sebbene non fino in fondo condivisibile, si comprende dettata dalla limitazione delle risorse disponibili. Ciò che davvero ha dell’incredibile è il fatto che non tutte le lavoratrici sono uguali. Quelle a tempo determinato, quelle occupate come collaboratrici domestiche sono un po’ meno uguali delle altre, anche se verosimilmente più fragili e con meno reddito.

Commento amaro

Anche in questo caso sembra trovare conferma l’impressione che l’attuale maggioranza di destra-centro ritenga che chi si trova in condizione di minore certezza e favore sia causa del suo male e quindi debba pagare pegno. Sei precaria? Colpa tua. Lavori nelle case di altri? Peggio per te, potevi sceglier meglio, eccetera. Sottolinea infatti Barbaresi: “I criteri per accedere alla misura sono rigidi e discriminanti”. Prosegue la dirigente sindacale: “Ancora una volta un bonus, ancora una volta un vulnus al principio dell’universalità perché rivolto esclusivamente alle lavoratrici a tempo indeterminato e in misura maggiore quelle con i redditi più elevati, mentre esclude inspiegabilmente lavoratrici precarie e quelle occupate nel lavoro domestico, ovvero chi ha più bisogno di certezze e stabilità economica e lavorativa necessarie per programmare con serenità un percorso di vita e genitorialità”.

Qualcosa non è chiaro

Interpretare le norme e le circolari non sempre è facile. Cristiano Zagatti, coordinatore area Welfare e Diritti e Massimo Brancato coordinatore area Politiche per lo Sviluppo della Cgil hanno redatto una nota per render meno ostica la norma e la circolare. La legge dice che la decontribuzione è del 100%, ma con un tetto massimo di 3.000 euro anno da spalmare su 12 mesi. Scrivono i due dirigenti sindacali: “Il testo della norma e la circolare Inps ci portano quindi a pensare che il tetto considerato sarà, appunto, quello dei 250 euro al mese e la decontribuzione sarà applicata solo su 12 mesi. Ciò significa che nei fatti la decontribuzione non sarà integrale, e che potrebbe capitare che per alcune lavoratrici l’erogazione sarà inferiore a 3.000 euro, pur in presenza di una capienza residua nella contribuzione IVS versata sulle mensilità aggiuntive”.

In sostanza questa modalità di erogazione rende il provvedimento ancora più regressivo, penalizzando le retribuzioni inferiori ai 35.363 euro annui che, se anche versassero una contribuzione superiore ai 3.000 euro, non avrebbero possibilità di recuperarla integralmente, a differenza dei percettori di una retribuzione maggiore.

Non funziona

Davvero Meloni pensa che una misura così fatta farà aumentare le nascite? Facile annunciare a reti unificate provvedimenti che nella realtà si dimostrano diversi. Difficile è attuare politiche per tutte e tutti in grado di affrontare i problemi. Conclude amara Barbaresi: “Per sostenere la natalità non bastano bonus o misure sporadiche: serve un lavoro stabile e di qualità e una rete di servizi, diffusi e accessibili, a partire da quelli per la prima infanzia”.

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