Una grande mobilitazione il 29 ottobre, un patto tra operatori e utenti per rivendicare la centralità della salute intesa come benessere e non solo assenza di malattia. La pandemia ha squadernato la centralità di chi lavora nel Servizio sanitario nazionale, ma anche tutte le carenze e i bisogni necessari a restituire servizi efficienti. Il ruolo, il numero e le condizioni di lavoro di chi garantisce salute. E poi quale modello di servizio sanitario per quale modello di società. Di tutto questo parliamo con Serena Sorrentino, segretaria generale della Fp Cgil impegnata in decine di assemblee in giro per l’Italia per chiedere di “ascoltare il lavoro” nella manifestazione nazionale della Cgil dell'8 ottobre e nella giornata di mobilitazione sulla sanità del 29 ottobre.

Ben prima delle elezioni, unitariamente, avete indetto la mobilitazione nazionale della sanità: “Se non la curi non ti curi”
Da tempo sentiamo l'esigenza di rifocalizzare l'attenzione sul rilancio del servizio socio sanitario a livello nazionale. Dopo la pandemia, che in realtà non è finita, abbiamo visto una serie di interventi di carattere normativo, ma anche un cambio di approccio nei confronti del tema salute che sta allarmando tutta la categoria. Mancate risposte che riguardano le emergenze del sistema sanitario, scarse misure volte all'implementazione dell'integrazione sociosanitaria, ma soprattutto una modalità di relazione da parte della politica e dei soggetti che hanno compiti di programmazione e gestione, pensiamo al sistema delle Regioni, che da quell'afflato, che durante la pandemia sembrava essere in qualche modo riemerso attorno alla centralità della salute come diritto fondamentale, invece ci sta facendo precipitare verso una dimensione nella quale i diritti sociali, e in particolar modo il diritto alla salute, diventano di nuovo subordinati alla compatibilità economica, anche e soprattutto a una tendenza verso il mercato privato piuttosto che alla difesa del sistema pubblico. E allora a partire dal dato - sicuramente non positivo - della diminuzione nel prossimo triennio delle risorse appostate sul Fondo sanitario nazionale, a questioni che riguardano le emergenze relative al personale, abbiamo deciso di costruire una piattaforma che guarda, ovviamente, alla prospettiva che viene dal mondo del lavoro e degli operatori sanitari, ma che tenta di aprirsi e di allargare la rete ai cittadini che sono fruitori dei nostri servizi e, in qualche modo, di ricostruire quel movimento e quella mobilitazione generale che faccia cambiare gli indirizzi rispetto agli investimenti sulla salute.

Una mobilitazione e alleanza tra operatori sanitari e cittadini e cittadine, in realtà fu ciò che portò nel ‘78 alla approvazione della legge che istituì il Servizio sanitario nazionale
Esattamente, l'obiettivo è quello di ritornare ai principi, ai valori ispiratori di fondo, mi riferisco alla Costituzione agli articoli 32 e 3, e alla Legge 833 del 78 che ne fu la traduzione. Pensiamo di dover sfruttare l’occasione che ci viene, da un lato, dalla potenziale correzione delle distorsioni introdotte dal Titolo V della Costituzione, che ovviamente auspichiamo non vada nel segno dell'autonomia differenzata e della secessione legislativa, soprattutto in campo sanitario, ma verso una maggiore uniformità e omogeneizzazione dei modelli di governance del sistema sanitario e socio sanitario a livello nazionale e regionale. Dall’altro guardiamo alle risorse del Pnrr, che ci potrebbero consentire una rigenerazione totale del modello di benessere, prima ancora che del sistema organizzativo, della salute nel nostro Paese. Questa occasione non può essere mancata, non ci saranno nel prossimo futuro, vista l'emergenza sociale ed economica che deriva dalla crisi energetiche e dalla guerra, ulteriori risorse che ci consentano di ripensare il sistema salute.

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Stiamo assistendo da qualche mese a un fenomeno forse inaspettato: la fuga di personale, soprattutto medici, proprio dal servizio sanitario nazionale. Perché?
In queste settimane stiamo facendo tantissime assemblee, Ciò che ci viene indicato da tante operatrici e operatori è, da un lato, l'esigenza di costruire modelli di valorizzazione professionale che sempre di più tengano in considerazione due fattori: una giusta ed equa retribuzione del lavoro professionale in sanità, e dall'altra parte anche l’attenzione alle condizioni di lavoro. Prima ancora del salario, ciò che oggi allontana le lavoratrici e i lavoratori dal sistema pubblico è un effetto indiretto della mancanza di personale. Turni massacranti, prestazioni aggiuntive, ma soprattutto la preoccupazione rispetto alla qualità del servizio che si riesce a fornire facendo deroghe all'orario di lavoro. Mediamente lavoratrici e lavoratori del comparto lavorano molto più di 54 ore settimanali, i dirigenti medici arrivano anche a sfondare il tetto delle 75-76 ore più ovviamente le prestazioni aggiuntive, turni di emergenza e di reperibilità. Questi sono livelli insostenibili, è la condizione del lavoro che sta determinando questa fuga dal sistema pubblico.

Sembrava che la pandemia avesse rimesso al centro dell'attenzione di governo e politica proprio la sanità pubblica. Quello che tu ci stai raccontando, invece, dice il contrario.
Credo che in parte derivi dall'incapacità del sistema Paese di costruire una programmazione e una visione di lungo periodo che si determini in maniera stabile e indipendentemente dall'alternanza politica. Siamo abituati a reagire all'emergenza, alla contingenza. Nella pandemia, l'attenzione rispetto ai modelli di contrasto alla vulnerabilità sociale, di cui il sistema salute è il perno fondamentale, era ovviamente molto alta. Passata l'emergenza, i punti chiave dell'agenda politica si sono spostati verso altre emergenze. La questione fondamentale è che però lo Stato sociale, il welfare, la salute sono un’architettura che non è semplicemente organizzativa e istituzionale, ma è soprattutto un modello di società. Rispetto a questo, credo che lo smarrimento di senso rispetto alla salute come priorità dell'azione politica dimostri una incapacità di cogliere una lezione fondamentale che non ci viene solo dalla pandemia, ma anche dalle grandi trasformazioni, penso per esempio ai cambiamenti demografici, ai cambiamenti climatici. Salute, in una visione olistica, vuol dire occuparsi del benessere della persona e del benessere delle comunità, va dal territorio, ai luoghi di lavoro, fino ovviamente al tema della medicina di iniziativa e della prevenzione. Significa avere una società che è più sicura e meno vulnerabile alle grandi trasformazioni, ai grandi cambiamenti che ci possono essere nell'economia così come nell'ambiente. Non investire sulla salute, significa che il futuro sarà un po’ più incerto.

Il Pnrr contiene un progetto di riforma della sanità di territorio, ma rischia di essere un’occasione mancata. Il disegno organizzativo è buono ma non ci sono le risorse per il personale, quali le risposte che chiedete al governo?
La prima grande risposta è cambiare la modalità con la quale si formano i professionisti. Il combinato disposto del numero programmato per le facoltà universitarie delle professioni sanitarie, e il numero programmato di borse di specializzazione, ha determinato la difficoltà di reperimento delle competenze così dirompente durante i mesi più acuti del Covid. Occorre cambiare il modello di programmazione della formazione delle competenze. Poi c'è bisogno, ovviamente, di fare un ragionamento rispetto al mercato del lavoro nell'ambito sanitario. Le nostre richieste, ribadite anche nella piattaforma del 29 ottobre, sono un piano straordinario di assunzioni che significa cambiare anche le modalità di reclutamento e la costruzione dei piani triennali del fabbisogno delle aziende sanitarie, la stabilizzazione di tutti i precari, e infine c’è il tema della relazione pubblico privato. Proprio in queste settimane siamo impegnati in una serie di vertenze sull’affidamento della gestione di interi reparti a cooperative. Riteniamo sia l'inizio di una sorta di privatizzazione interna del sistema sanitario nazionale dovuta ai vincoli dei tetti di spesa per l’assunzione di personale. Insomma, una delle priorità fondamentali per far riuscire la scommessa del Pnrr è un grande investimento per il personale che, visti i vincoli del Pnrr stesso, non può che essere finanziato dal bilancio ordinario dello Stato con uno stanziamento adeguato per il Fondo sanitario nazionale.

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È solo una questione di risorse?
No, e su questo c'è bisogno di un po’ di chiarezza. Le Missioni 5 e 6 del Pnrr e i decreti conseguenti partono da una visione: la spinta alla prossimità crea integrazione tra sanità e sociale, trovando nella presa in carico della persona la possibilità di dare le risposte adeguate ai bisogni attraverso la funzione e il ruolo del distretto socio sanitario e delle case di comunità. Già da qualche mese assistiamo a una sorta di controriforma mai dichiarata, se non nelle ultime ore, ma di certo praticata, che rischia di minare alla base uno degli elementi essenziali che ci ha fatto guardare con favore al Pnrr. Se questi due pilastri vengono meno, cade tutto il castello su cui si fonda la ricostruzione prevista dal Pnrr.  Insomma, c’è un problema di visione e di uniformità di modello su tutto il territorio nazionale e c’è un problema di risorse ordinarie per far vivere quel modello.

Esiste un problema in più che nasce dal risultato elettorale. La nuova maggioranza, quella che verosimilmente avrà la responsabilità di governo, nel suo programma e nei programmi dei partiti che la compongono, mette in discussione proprio la parte del Pnnr che riguarda la sanità. Che cosa rischiamo?
Quando dicevo che è già in atto una controriforma, volevo proprio fare riferimento al fatto che in alcune Regioni, quelle governate dal centrodestra, è già in atto una controriforma che vede mettere in discussione alcuni elementi contenuti nel DM 77. Penso alla Calabria che ha deliberato l’introduzione delle Uca, incentrate sui medici di base e sui pediatri di libera scelta, al posto delle case di comunità. Penso alla Lombardia che ha costruito un modello di sostituzione delle case di comunità con gli studi polispecialistici per quindi incardinare sulla medicina convenzionata anche specialisti ambulatoriali. In questo modello manca il pezzo dell’integrazione con il sistema di salute dipartimentale che va molto oltre la medicina di base e che, se volessimo ritornare ai principi della 833, sarebbe l'unico elemento che riesce a tenere insieme da un lato la prevenzione, la cura e la riabilitazione, e dall'altro la presa in carico del soggetto. Da questo punto di vista credo che non solo si apra la questione della rinegoziazione del Pnrr, che non è operazione semplice, ma che si vada di nuovo verso un modello di separazione di funzioni nell'ambito sanitario, che è un passo indietro rispetto al modello di prossimità e di integrazione e che presuppone anche uno spazio molto più largo di privatizzazione del sistema sanitario nazionale.

Anche perché bisogna ricordare che i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta non sono operatori del sistema sanitario nazionale, ma privati che lavorano in Convenzione col sistema sanitario pubblico
Esattamente, ed è la ragione per la quale noi pensiamo che il modello disegnato dal Pnnr possa funzionare se si supera il regime di convenzionamento e se si riqualifica il modello della dipendenza da un lato intervenendo sulla valorizzazione professionale, dall'altro riorganizzando anche i modelli di lavoro in equipe e l'integrazione tra la medicina di base, la medicina generale e la medicina di comunità.

Che cosa succede il 29?
Il 29 ottobre la parola sarà data alle lavoratrici e ai lavoratori del sistema sanitario, abbiamo voluto tenere insieme i lavoratori della sanità pubblica, della sanità privata ma anche del terzo settore. Vogliamo rendere evidente che il lavoro è in grado di fornire un progetto di ricostruzione e di integrazione delle tante funzioni che oggi vedono una frammentazione contrattuale e una frammentazione della programmazione, verso un progetto unico di sistema socio sanitario nazionale. A loro sarà affidato il compito di mettere in luce quelle che sono le emergenze, ma anche di presentare le risposte del sindacato a livello unitario. ù

E dal giorno dopo?
Il giorno dopo continua la vertenza. In queste settimane non abbiamo mai smesso di costruire una campagna di sensibilizzazione dell'opinione pubblica, e anche vertenziale nei confronti delle aziende sul tema, ovviamente, dell'emergenza personale. Ma sappiamo che rischiamo di dover affrontare ulteriori emergenze. La prima è quella che riguarda le risorse per le retribuzioni di questi lavoratori, la seconda riguarda i rinnovi contrattuali. Abbiamo rinnovato il contratto per le lavoratrici e i lavoratori della sanità pubblica del comparto, manca ancora quello della dirigenza sanitaria. Sappiamo che siamo ovviamente in difficoltà nella riapertura del tavolo per il rinnovo del contratto della sanità privata che abbiamo faticosamente rinnovato dopo 14 anni, ma che adesso ovviamente vogliamo che continui a garantire il riallineamento con il trattamento della sanità pubblica. Non abbiamo ancora un Contratto collettivo nazionale di riferimento per le Rsa e va avanti la nostra vertenza e la mobilitazione già determinata in questi mesi. Soprattutto dobbiamo rinnovare tutti i contratti del terzo settore, a partire da quello della cooperazione sociale. E dobbiamo, attraverso un ripensamento del sistema di accreditamento e convenzioni tra pubblico e privato, garantire che gli operatori che fanno lo stesso lavoro abbiano gli stessi diritti e lo stesso salario. Ma soprattutto dopo il 29 auspichiamo che da questa mobilitazione delle lavoratrici e dei lavoratori del settore sanitario, se ne costruisca una sempre più larga e partecipata, che consenta di trasformare la vertenza per un nuovo servizio socio sanitario a livello nazionale, in una mobilitazione di massa che ci porti ad avere nella legge di stabilità e nell'applicazione omogenea del DM 77 le risposte in grado offrire un altro modello di salute per i nostri cittadini.