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Il caldo non esiste. È un’invenzione dei sindacati, dei meteorologi al soldo delle ong e dei comunisti col termometro. Parola dell’ala climatogastrica del governo, quella che confonde il surriscaldamento globale con il microonde. I lavoratori evaporano a norma di contratto. La maglietta incollata alla pelle rientra nel vestiario tecnico. Il sole è un benefit naturale. Se l’asfalto fuma, basta distogliere lo sguardo.
C’è un protocollo, dicono. Un “protocollo caldo”. Come dire: facciamo finta di aver fatto qualcosa. Nessun obbligo, solo galateo da servizio del tg4. Bevi, riposati, evita le ore infernali, mangia molta frutta e crepa con compostezza. Il padrone si affaccia dal Suv climatizzato e valuta l’umidità come un sommelier del disagio, sudando solo davanti alla Guardia di Finanza.
Chi lavora all’aperto ha due scelte: cuocersi o tacere. Lamentarsi è ormai un lusso borghese. Chi osa protestare viene accusato di allarmismo climatico, terrorismo termico, frignismo ideologico. Nei campi si miete il grano e l’ictus, a rotazione. Nei cantieri il casco serve a raccogliere il sudore, la pausa arriva dopo la sincope. I rider cuociono le pizze direttamente all’interno delle borse a tracollo, nel traffico, tra un semaforo e una notifica.
Il governo nega con zelo da crociata. Il cambiamento climatico è leggenda metropolitana, come l’evasione fiscale. Il sole è una trovata estetica. Le temperature, un attacco all’identità nazionale. E se lo afferma un ministro con la fronte asciutta e la cravatta ben stirata, dev’essere vero.
Ad ammazzare non è il caldo, è la gerarchia termica. In cima c’è frescura e pensieri refrigerati, in basso si soffoca e si produce. Non si muore per il sole, si muore per ordine di scuderia. Il sudore è uno scarto previsto. Come l’operaio. Chi crolla viene spostato ai margini, lontano dagli occhi e dal condizionatore. Il lutto non rientra nei tempi di consegna.