Quando era direttore dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro aveva cominciato a unificare le banche dati di tutti i soggetti che si occupano di controllo sul lavoro, aveva assunto nuovi ispettori e intensificato enormemente i controlli. Insomma operava davvero per costruire sicurezza. Poi è cambiato il governo ed è stato sostituito. Oggi è tornato a fare il magistrato in Cassazione, ma la passione per il lavoro e i lavoratori non lo ha abbandonato. Bruno Giordano continua a ragionare su come evitare illegalità contrattuali e contributive e soprattutto come contribuire a rendere cantieri e fabbriche sicure.

In questi giorni si è parlato moltissimo del codice degli appalti riformato dal ministro Salvini, ci spiega perché il codice dei contratti pubblici - questa la definizione corretta - facilita gli incidenti invece di prevenirli e ostacolarli?

Con la riforma Salvini sono possibili una serie infinita di subappalti negli appalti pubblici. Dal punto di vista economico significa che il costo dell’opera viene distribuito come profitto su tutte le imprese sia appaltatrici che subappaltatrici. Se l’opera costa cento e la realizza una sola impresa, questa avrà tutto il profitto, ma se la prima impresa suddivide il lavoro con altre imprese, evidentemente anche queste devono avere il proprio profitto, l’unico modo per ottenerlo è stringere la cinghia dei costi per massimizzare i profitti. Inevitabilmente i costi che si riducono sono quelli del lavoro, quelli della sicurezza e dei materiali. Più è lunga la catena dei subappalti, più si risparmia sulla sicurezza e si pagano meno i lavoratori, magari in nero o in grigio.

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Lei ha più volte sostenuto che serve il contratto di cantiere, perché?

All’interno di un cantiere, privato come quello di Firenze o pubblico, operano moltissime imprese e ciascuna applica il proprio contratto di settore, dall’idraulico all’elettricista, dal fornitore di calcestruzzo al gruista, alle ditte che montano gli ascensori, eccetera. Già questo è un problema, per di più nella catena dei subappalti, a volte, vengono usati contratti diversi da quelli della filiera dell’edilizia per abbassare il costo del lavoro e non essere tenuti ai vincoli della cassa edile e delle scuole edili. E questo è possibile perché non esiste una norma che imponga il contratto dell’edilizia a tutti coloro che operano in un cantiere. Quindi, in un cantiere entrano maestranze di varie ditte, con delle regole contrattuali diverse e con regole e formazione in materia di sicurezza diverse. Ovviamente in questo modo si crea una eterogeneità della formazione, per tale ragione si impone un problema di coordinamento serio ed effettivo tra le varie ditte presenti nel singolo cantiere.

In un cantiere la formazione sulla sicurezza e il coordinamento tra le diverse ditte a chi spetta?

Ciascun datore di lavoro porta in cantiere i rischi tipici della sua attività, i propri dipendenti, con la relativa formazione e il committente o il responsabile dei lavori deve nominare un coordinatore. Peraltro, spesso la formazione su tutti i rischi presenti è formale, burocratica, solo una carta firmata in cui si dichiara di aver ricevuto la formazione dovuta. Ma non è vero niente. In un cantiere regolato totalmente da un unico regime questo sarebbe più difficile. Esiste in Italia un mercato della falsa formazione con consulenti che attestano corsi mai avvenuti, tra la formazione dovuta e quella effettiva non sempre c’è coincidenza, non sempre quella effettiva è adeguata e tiene conto dei diversi rischi presenti nello stesso luogo di lavoro, e così si crea un caos del rischio.

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Quando era direttore dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro aveva cominciato un’opera che da un lato prevedeva l’unificazione delle tante diverse banche dati che riguardano il mondo del lavoro e dall'altro aveva avviato ispezioni preventive. Questo lavoro che fine ha fatto?

Parlano i fatti. Avevamo avviato un lavoro rivoluzionario, abbiamo assunto, sotto il governo Draghi, il 65% del personale in più nell’arco di dieci mesi presso l’Ispettorato del Lavoro, abbiamo fatto un protocollo con la Sicilia dove l’ispettorato nazionale non è presente e dove c’è un grave deficit di ispettori regionali e, soprattutto, abbiamo avviato il portale nazionale del sommerso e il sistema informativo nazionale della prevenzione. Poi il mio mandato è stato interrotto e molte di queste attività non hanno avuto l’impulso necessario. Per realizzare le cose occorre buona volontà, lavoro di squadra, competenze e operatività. Occorre lavorare con tanta umiltà e non fare grandi dichiarazioni a cui segue poco.

Se davvero si volesse ricostruire il sistema della prevenzione quali sono le tre priorità che secondo lei bisognerebbe realizzare?

Innanzitutto un coordinamento di tutti gli organi di vigilanza, quelli delle Asl, dell’Ispettorato dell’Inps, dell’Inail e quelli di alcuni settori specialistici. Non è semplice, richiede il superamento di interessi corporativi, di interessi regionali e soprattutto una collaborazione costruttiva. Purtroppo, non tutta la responsabilità è delle imprese, anche lo Stato e le regioni hanno la loro responsabilità. La seconda priorità è quella della applicazione concreta, effettiva e operativa del Testo Unico in materia di sicurezza. Sono passati 16 anni da quando fu varato e mancano ancora 26 decreti ministeriali in capo al dicastero del Lavoro per rendere operativa e concreta la normativa. Non fare nuove norme ma consentirci di applicare quelle che abbiamo. Infine, la terza è sul piano giudiziario, sono vent’anni che chiediamo l’istituzione della Procura nazionale del lavoro.

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Irregolarità e sicurezza sono parole che hanno un senso tra di loro?

Certamente, dove c’è precarietà c’è una debolezza del lavoratore. Si ha timore a rivendicare i propri diritti, perché non si è sicuri di un rinnovo contrattuale e questo, inevitabilmente porta a una minore tutela non solo nella sicurezza, ma anche nella regolarità del lavoro. E quasi la regola che nelle piccole e medie imprese ci siano lavoro grigio, lavoratori assunti per un numero di ore inferiori a quelle realmente svolte, con una copertura inferiore ma sempre pronta ad essere tirata fuori se dovesse esserci un controllo o un infortunio. Anche questo rende deboli i lavoratori.

Quanto pesa il sommerso sugli incidenti?

L’economia sommersa in Italia ammonta a circa a 200 miliardi, un terzo è lavoro sommerso, stiamo parlando di circa 70 miliardi di euro all’anno. È lavoro senza copertura, senza previdenza, senza assicurazione, senza sicurezza. Non solo, per pagare dipendenti in nero ci vuole l’evasione fiscale, cioè vendere senza fattura, quindi il lavoro sommerso è l’anello più debole di un’economia sommersa.

Allora, se esiste un legame così stretto tra lavoro sommerso, insicurezza e evasione fiscale, la proposta della ministra Calderone di procedere a una sorta di condono anche per l’evasione contributiva e il lavoro nero è positiva o incentiva ulteriormente il sommerso?

Io credo che tutti i condoni siano un’espressione patologica da parte dello Stato che rinuncia ad applicare le proprie leggi, accontentandosi di fare un po’ cassa. Certo dovremmo leggere il testo ma, insisto, parlare di condono è una resa dello Stato.

Ha la sensazione, al di là delle parole, che l’attenzione sulla sicurezza sul lavoro sia diminuita?

Non è diminuita, è crollata. Questa stagione si è aperta con una frase che tutti ricordiamo: “Non disturbiamo chi ha voglia di fare”. I risultati sono ciò che è accaduto a Firenze.