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Prosegue l’offensiva propagandistica e mediatica del M5S contro i sindacati confederali. Dopo avere aspramente reagito alle loro critiche sulla manovra economica – anche per ciò che attiene a misure importanti ma assai mal congegnate, come il reddito di cittadinanza e quota 100 – si apre un nuovo fronte intorno alla proposta di una legge per un salario minimo orario, contrastata – a loro dire colpevolmente – dai sindacati, insieme in questo a Confindustria.
L’istituzione di un salario minimo legale riprende un loro ddl del 2013 e sta in testa al famoso contratto di governo fra Lega e M5S, per ciò che attiene al capitolo lavoro. Essa è ora oggetto di un nuovo ddl (658/2018), a prima firma Nunzia Catalfo, depositato in Commissione lavoro al Senato. L’obiettivo dei suoi cinque articoli sarebbe quello di raggiungere con questo strumento tutte le categorie di working poors in cui la retribuzione minima è inferiore alla soglia di povertà relativa (50% del salario mediano), pur essendo regolarmente occupati. In questo progetto, “il trattamento economico complessivo” del lavoratore non potrà essere inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore, stipulato dalle associazioni più rappresentative sul piano nazionale, similmente alla vecchia delega, disattesa, del Jobs Act (L. 183/2014, art. 1, co. 7). E comunque, e qui sta già una grossa novità “non inferiore a 9 euro all’ora, al lordo degli oneri contributivi e previdenziali” (Art. 2).
A suffragio della sua petizione, il M5S ricorre al raffronto europeo (Eurofound, Statutory Minimum Wages 2018), rilevando un dato piuttosto noto, e qui liquidato alla stregua di una inaccettabile anomalia del sistema italiano. Quello per cui, su 27 Stati membri, ben 22 hanno il salario minimo per legge, e noi – a causa di quella che viene ritenuta una pervicacia dei sindacati confederali – invece no. “Così sono liberi di impoverire i lavoratori”, è il loro sobrio commento, sottoscrivendo magari “accordi da 3 euro lordi l’ora”, per poi andare in piazza a protestare, è la chiosa, contro chi invece ha veramente a cuore la dignità dei lavoratori (Il Blog delle Stelle).
Si tratta di considerazioni per lo più incomplete, strumentali o semplicemente false. Se è infatti vero che il salario minimo legale rappresenta la soluzione più comune all’interno dell’Unione europea, occorre aggiungere che i cinque Paesi che non vi ricorrono, optando per una definizione di origine contrattuale, sono – per la qualità del lavoro e delle relazioni sindacali – di assoluto rispetto: Svezia, Danimarca, Finlandia, Austria e, appunto, Italia. Per una volta potremmo dire di stare in un’ottima zona delle graduatorie comunitarie. E la ragione è che questi Paesi sono fra i pochi rimasti in cui la forza associativa delle parti sociali (la più alta sindacalizzazione dell’Ue), insieme a quella dei contratti nazionali da esse stipulati, riesce a coniugare altissimi livelli di copertura (pressoché integrale), con soglie minime di retribuzione, in rapporto a quelle mediane, uguali o maggiori che non nei Paesi più virtuosi dove vige il minimo legale. Qui infatti tale rapporto (noto come “indice di Kaitz”) si staglia sempre al di sotto della soglia del lavoro povero (66%), laddove in oltre la metà dei casi – fra cui Germania, Regno Unito, Spagna – sfiora o non si raggiunge neppure quella di povertà (50%). Il rapporto evocato dal M5S contiene oltretutto una tesi molto pericolosa. Che dev’esser loro sfuggita. E cioè che se il minimo legale supera la soglia del 40% del salario mediano (dunque ben al di sotto della soglia della povertà assoluta), ciò avrebbe conseguenze negative per l’occupazione. Cosa sulla quale non possiamo che dissentire radicalmente, come peraltro le esperienze europee in gran parte testimoniano.
In Italia, dove pure i contratti nazionali non hanno un’efficacia legale diretta, i livelli di copertura sono ovunque stimati oltre il 90%, laddove il rapporto fra salario minimo contrattuale e salario mediano, è il più alto d’Europa (>80%). Un dato che rivela eventualmente, più che un problema coi livelli minimi, una inadeguatezza dei livelli medi e mediani, per la cui crescita occorrerà indubbiamente moltiplicare gli sforzi. Già oggi, i minimi contrattuali italiani si attestano in media sui livelli dei paesi più ricchi d’Europa (9,41 euro; Garnero, 2015), dove a disporli è la legge, senza però l’inconveniente di appiattire i trattamenti, riguardo alle varie specificità settoriali e professionali dei lavoratori.
Ovviamente, è del tutto falso insinuare che i sindacati confederali firmino contratti con salari minimi a 3 euro lordi, laddove è invece molto reale l’insidia del lavoro nero e grigio, e ora anche dei contratti nazionali “pirata”, stipulati a centinaia da sigle sconosciute o prive di adeguata rappresentatività. E in grado di esercitare un pericoloso dumping salariale, che dev’essere con ogni mezzo prevenuto ed estirpato. Da questo punto di vista, più che ricorrere a minimi legali inter-categoriali e inter-professionali, sarebbe più utile e opportuno varare una legge che conferisca efficacia erga omnes solo a quei contratti stipulati dalle organizzazioni in grado di attestare una certificata rappresentatività sociale, secondo quanto già previsto nel pubblico impiego e negli accordi interconfederali del settore privato. Che è poi – e qui siamo d’accordo – quanto previsto all’art. 3 del ddl, con riguardo alla pluralità di contratti nazionali applicabili, e col richiamo al primato di quelli comparativamente più rappresentativi, secondo quanto definito nel Testo unico sulla rappresentanza, siglato dai confederali e da varie associazioni datoriali, a partire dal 2014.
Il problema dell’evasione contrattuale è reale e particolarmente penoso in alcuni settori (agricoltura, ristorazione, spettacolo), territori (ampie parti del Sud) e per alcune tipologie lavorative (immigrati, finti-autonomi). È quell’11,7% di lavoratori sotto i minimi contrattuali, e in aumento, citato dagli estensori del progetto, contro una media dell’Ue al 9,6%. Un lavoro povero, dovuto anche all’abuso di part-time ridottissimi, atipicità fittizia e grave discontinuità dell’impiego. Quello che fa dire al presidente uscente dell’Inps che nel Sud il 40% percepisce una retribuzione inferiore al reddito di cittadinanza. Un salario minimo legale potrebbe in parte ridurre queste degenerazioni, ma solo alla condizione di ridurre la precarietà e di potenziare gli strumenti ispettivi, colpevolmente insufficienti, come del resto rivela l’elevata elusione normativa in svariati altri ambiti della vita nazionale. Potenziamento da sempre invocato dai sindacati, al fine di rendere più certi ed esigibili gli standard di tutela lavoristica (lotta al sommerso, al caporalato, agli incidenti sul lavoro, alle discriminazioni). L’Italia, insieme a Svezia e Danimarca, è il solo paese dell’Ue a non avere né un salario minimo legale, né procedure amministrative per l’erga omnes. Poiché è innegabile che, diversamente dai due Paesi scandinavi, i rischi di irregolarità e precarietà varie siano da noi molto maggiori, è plausibile perorare un intervento normativo. Ma sul versante dell’efficacia generalizzata dei contratti, piuttosto che su quello del minimo legale.
In Italia, l’art. 36 della Costituzione dispone che la retribuzione non debba essere “minima”, bensì “proporzionata” al lavoro svolto, e in ogni caso “sufficiente” a garantire una vita dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia. Tali livelli sono stati tradizionalmente identificati dalla giurisprudenza nei minimi fissati dai contratti nazionali di lavoro. Se ora, accanto ad essi, se ne fissasse un altro per legge, presumibilmente più basso di quello contrattuale, il riferimento del magistrato finirebbe inevitabilmente col ricadere su quest’ultimo. I datori di lavoro, a quel punto, potrebbero non avere più alcun interesse a stipulare contratti nazionali sul salario, optando per minimi legali più bassi, ed una più ampia e unilaterale discrezionalità a livello aziendale e individuale. Per circoscrivere questo rischio, il ddl del M5S evoca – come già il Jobs Act – il caso in cui vi sia carenza di contratti collettivi applicabili (art. 4), per il quale il riferimento andrebbe al contratto collettivo – si badi – “territoriale” in vigore nel settore e nella zona, sia pure stipulato dalle associazioni comparativamente più rappresentative. Validi anche in regime transitorio (art. 5). Ma in uno scenario nazionale affetto da un eccesso, e non certo da una carenza, di contratti nazionali per centinaia di settori e comparti, quale sarebbero esattamente queste realtà ad oggi scoperte? Quanto all’importo di 9 euro lordi, esso ci collocherebbe ai livelli più alti in Europa; più della stessa Germania (8.84) e del Regno Unito (8,79). Ma che non considera gli svariati vantaggi accessori, anche economici, correlati all’applicazione di un contratto nazionale, piuttosto che un intervento circoscritto al solo minimo salariale.
Se nel M5S avessero letto con più attenzione il rapporto della Fondazione di Dublino, che peraltro non tratta dei cinque Paesi con salario minimo contrattuale, avrebbero scorto quel passaggio in cui – a proposito di questi ultimi – si dice che “la combinazione fra minimi settoriali ed alta copertura della contrattazione collettiva può essere considerata un equivalente funzionale del salario minimo legale vincolante” (p. 3). Che è poi quello che, non da sola in Europa, la Cgil ritiene essere un’alternativa ancora preferibile, quando le condizioni (tasso di sindacalizzazione; erga omnes di fatto; alta copertura contrattuale) lo consentono. Essa infatti, in tutti e cinque i Paesi dove è la norma, garantisce livelli minimi mediamente più alti, consente una maggiore duttilità in base alla qualifica e all’esperienza professionale, risulta meno esposta alla contingenza politico-economica (il congelamento del minimo legale è stata infatti fra le prime misure imposte dall’austerità, ai paesi più colpiti dalla crisi); preserva il ruolo del sindacato quale autorità salariale, e con esso il valore sociale dell’intermediazione, contro le derive atomistiche e individualistiche – già molto spinte e preoccupanti – della nostra società.
Salvo Leonardi è ricercatore della Fondazione Di Vittorio