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L’Italia lavora, ma non si arricchisce. Lavora anzi per restare ferma, o peggio per perdere terreno. Lo conferma l’ultima fotografia dell’Istat: a settembre 2025 gli stipendi reali, cioè depurati dall’inflazione, restano più bassi dell’8,8% rispetto a gennaio 2021. Quattro anni dopo l’esplosione dei prezzi, il recupero non c’è stato.
Le buste paga sono cresciute nominalmente, i contratti collettivi hanno provato a inseguire i rincari, ma la corsa dei prezzi ha divorato quasi tutto. Così il potere d’acquisto delle famiglie continua a scivolare, schiacciato tra bollette, mutui, spesa e affitti sempre più pesanti.
Nel terzo trimestre del 2025 la dinamica salariale ha rallentato: a settembre le paghe orarie restano ferme rispetto al mese precedente e segnano un +2,6% su base annua. Un ritmo che non tiene il passo dell’inflazione, né basta a compensare gli anni di perdita accumulata. Gli aumenti sono stati più visibili nel pubblico impiego (+3,3%), grazie alle indennità di vacanza contrattuale, mentre industria e servizi si fermano intorno al +2,4%.
Il quadro generale è impietoso: da gennaio a settembre le retribuzioni medie orarie sono cresciute del 3,3% rispetto al 2024, ma l’Italia resta inchiodata in fondo alla classifica Ocse, con una media annua di 38.600 euro a parità di potere d’acquisto. Meno della Germania, meno della Francia, meno persino della media europea di 45.900 euro.
Le ragioni di questo ritardo non sono un mistero. Contratti collettivi scaduti, produttività stagnante, dilagare dei lavori precari e a basso salario: ingredienti di un sistema che non premia il lavoro ma lo usa come leva di risparmio. Ogni aumento nominale si dissolve nei rincari, mentre la ricchezza reale si sposta verso l’alto.






















