“Salviamo la Pesca”. Con questo messaggio in bottiglia, da una marineria di porto all’altra, è partita lo scorso 23 giugno la protesta di un settore che, dopo lunghi anni di crisi dovuta, anche e soprattutto, a strategie politiche sbagliate e che hanno disatteso tutte le promesse di rilancio, rischia di essere definitivamente affondato dal piano proposto dal commissario europeo del settore Virginijus Sinkevičius e in votazione proprio in queste ore. Seguendo logiche elettorali – in Europa i seggi per il rinnovo del Parlamento si apriranno tra un anno – il commissario lituano, alfiere degli ambientalisti, ha proposto all’inizio dello scorso febbraio un action plan che punta all’abolizione, entro il 2030, della pesca a strascico e di ogni attività svolta attraverso l’utilizzo di attrezzi trainati. Un requiem per il settore italiano, che verrebbe ulteriormente mortificato dall’intenzione di ampliare del 30% le aree protette e interdette ai pescherecci.

Abbiamo raggiunto al telefono Antonio Pucillo, capo del dipartimento pesca della Flai Cgil, in partenza per Bruxelles dopo aver incontrato, insieme alle altre parti sociali, il ministro dell'Agricoltura, Sovranità alimentare e Foreste, Francesco Lollobrigida. Lo scorso 26 giugno così l’Ansa riassumeva la partita che si sta giocando nelle stanze dei bottoni continentali: “Sono 26 i Paesi che appoggiano la proposta - ha detto il presidente di turno del Consiglio agricoltura, il ministro svedese Peter Kullgreen -, quindi lasciatemi riassumere così: il Consiglio ha adottato le conclusioni con il sostegno di tutti gli Stati membri eccetto l'Italia". Una partita che si gioca sulla pelle e sul posto di lavoro di migliaia di addetti del settore.  

La situazione

“La discussione è tutta aperta – sintetizza la situazione Antonio Pucillo –. Questa proposta sta incontrando enormi difficoltà. In Italia la mobilitazione del 23 giugno scorso è andata molto bene, oltre le nostre aspettative, perché i lavoratori sono stanchi, da anni sono in una condizione di crescente difficoltà. Anni in cui la riduzione dell’attività di pesca è stata tale da portarli a lavorare in media solo 120 o al massimo 140 giorni su 365. Anni in cui i vari fermi biologici (periodi in cui è vietata la pesca per varie ragioni, anche di contenimento faunistico, ndr) sono arrivati anche a 80 giorni. Anni in cui sono stati chiesti sacrifici e investimenti per rinnovare gli strumenti della pesca, ad esempio la sostituzione delle reti. Secondo un’indagine che riporta i dati del settore dal 2008 al 2021, in questo periodo in Italia la pesca ha perso 1600 posti di lavoro, il 38% di giorni lavorati e il 20% delle imbarcazioni. La pesca è l’unico settore dove ti pagano per chiudere. Ci sono stati incentivi al disarmo, veri e propri finanziamenti per convincerti a cessare un’attività che pure non sarebbe in perdita. La corda è stata tirata a tal punto che nei giorni in cui preparavamo la mobilitazione molti pescatori sui social, in risposta al nostro invito a manifestare, ci hanno chiesto che venisse riaperto il disarmo. E nonostante tutti questi sacrifici il piano intima lo stop entro il 2030. È stato un attacco troppo forte, che ha trovato una risposta altrettanto forte nella mobilitazione. A tal punto che si sono unite alla protesta anche alcune marinerie, come Mazzara del Vallo, dove non era stata inizialmente prevista”.

Il paradosso è che dal 2030 lo stop alle barche italiane potrebbe creare un vuoto di mercato che sarebbe riempito dal pescato del Nord Africa, ad esempio, o di tanti altri posti extra Ue, non soggetti ai regolamenti europei. “Scenario che prefigura non soltanto una ricaduta occupazionale, ma anche qualitativa rispetto al prodotto. Quel poco che mangi oggi di pescato italiano deve rispettare standard avanzati ed è soggetto a controlli sulla qualità stringenti. Nel momento in cui i nostri pescherecci resteranno in porto, il prodotto di quel pezzo di mercato liberato verrà occupato dal pescato proveniente da altri paesi dove non ci sono gli stessi controlli”.

Gli elementi da considerare

Come si esce da questa situazione, ammesso che il piano proposto a Bruxelles non passi? “Quello che chiediamo noi – ci ha detto Antonio Pucillo – è di agire su tutti gli elementi che impattano sul settore. In questi anni sono stati messi in atto tutti i cambiamenti richiesti, in termini di riduzione dei giorni di attività, di modifica delle attrezzature, di rispetto delle aree marine protette, ma l’obiettivo annunciato di recuperare, nel giro di quattro anni nei singoli piani di gestione dei territori marini, occupazione e redditività non è stato raggiunto. E la redditività, in un sistema salariale unico come quello di questo settore, che basa una fetta importante della paga proprio sul fatturato, non ha effetti solo sulla parte datoriale, ha effetto sui lavoratori. Evidentemente è ora di agire anche su altri fronti”.

Quali?  “L’impatto che ha il cambiamento climatico sulla vita dei pesci, per prima cosa. La presenza di specie aliene, provenienti da altri mari, tipo il granchio blu che si è adattato nelle nostre coste in maniera impressionante e non ha nemici naturali. Di queste specie ormai se ne contano una novantina. E l’inquinamento che impatto ha? Riuscite a immaginare quanta plastica, tonnellate e tonnellate, c’è sui nostri fondali? Rifiuti che con il moto ondoso diventano minuscoli e poi entrano nella catena del plancton trasportati dalle correnti e ricoperti di microalghe e altri organismi. Plancton inquinato che viene mangiato dal pesce azzurro che, a sua volta, viene mangiato da altri pesci. Via via risalendo e avvelenando tutta la catena alimentare”.

“In sintesi, la pesca ha il suo impatto sulla risorsa, non c’è dubbio. È evidente che vada controllata come si sta facendo. Quello è un percorso. Ma non è l’unico. Valutiamo anche gli altri elementi: inquinamento, cambiamenti climatici, pesca illegale, specie aliene. Altrimenti tappiamo solo una falla delle tante che si sono aperte nella diga”.

Il futuro

Non c’è da stupirsi che il futuro dell’intero settore sia in bilico, che ci sia una crisi di vocazione senza precedenti e nessun giovane voglia più investire in questa attività o scegliere di lavorarci. “Non abbiamo più giovani pescatori, non c’è ricambio generazionale – ammette Antonio Pucillo con amarezza –. La Flai in questi anni è andata in molti istituti nautici senza trovare un solo studente che volesse fare il pescatore, nonostante siano ragazzi che studiano per lavorare in mare. La cosa più preoccupante è che non abbiamo trovato neanche figli di pescatori che vogliano prendere in mano le redini dell’attività di famiglia. In totale controtendenza con la storia di un settore e di un mestiere che, tradizionalmente, si tramanda di padre in figlio. Anni e anni di politiche e strategie sbagliate hanno tolto ogni speranza”.