Il pericolo è dietro l’angolo. Poche settimane e quei lavoratori che fino a oggi sono stati cassintegrati per covid rischiano di restare definitivamente a casa. Se cadrà il divieto di licenziare, cadrà ogni argine e così, anche in quello che un tempo era il ricco Nord Est, la prospettiva sarà disarmante.

A Padova sono 90.000 i lavoratori interessati dagli ammortizzatori sociali nati per rispondere all’emergenza. Di questi 26.000 potrebbero rimanere senza un’occupazione, soprattutto nei servizi e nel settore manifatturiero. Numeri pronti a lievitare di pari passo con il contagio. A lanciare l’allarme è la Cgil provinciale che ha analizzato i dati di Veneto Lavoro, ente strumentale della Regione.

Finora sono stati i precari a pagare il prezzo più caro della pandemia: quasi 6.000 non hanno più un impiego. “È il dato peggiore da quando esiste la serie storica, cioè dal 2008 – commenta il segretario della Camera del lavoro Aldo Marturano - Il covid ha di fatto allargato ulteriormente la forbice tra lavoratori garantiti e lavoro povero, lasciando ancora una volta al welfare informale familiare il compito di reggere l'urto di un nuovo impoverimento delle fasce deboli, come i giovani e le donne. Ma se si colpisce anche il tempo indeterminato, potrebbero saltare tutte le reti".

Anche da questa provincia, il messaggio indirizzato al governo è inequivocabile: il blocco dei licenziamenti deve proseguire “altrimenti avremo il disastro sociale”. Per Marturano, però, c’è anche molto di più: “Questa misura deve far parte di una strategia complessiva che scommetta sull’innovazione e sul lavoro di qualità”. In altre parole, fermare i licenziamenti deve servire a guadagnare tempo per costruire e avviare un modello alternativo.

In un territorio come quello padovano - dove oggi come oggi non c’è forte specializzazione produttiva, ma una vocazione a servizi, turismo ed esportazioni - le peggiori conseguenze della crisi causata dal virus le hanno subite il settore alberghiero e quello della ristorazione. Solo nel bacino termale di Abano e Montegrotto significa 5.000 addetti, complessivamente invece sono 90.000, perlopiù a tempo determinato e non giovanissimi: è su di loro che la tempesta si è già abbattuta, mentre sul fronte manifatturiero – dove a farla da padrone sono le esportazioni legate al mercato tedesco – si galleggia e si teme per il prossimo futuro.

Qui il tessuto produttivo è fatto di aziende medio-piccole con una media di 3,1 dipendenti. Un tipo di struttura non propriamente incline a fare innovazione. Eppure, già prima che il coronavirus facesse ammalare l’economia, si sapeva che l’innovazione sarebbe stata la chiave per sopravvivere. Adesso la parola sopravvivenza, però, assume tutto il suo significato.

“Padova ha buoni fondamentali. – spiega Aldo Marturano - La nostra è una città universitaria vivace e con il competence center più grande d’Italia. Nel settore agroalimentare stiamo sperimentando un percorso di innovazione a tutto tondo che coinvolge l’intera filiera: dalla semina alla vendita passando per la conservazione e il confezionamento. Se vogliamo darci una possibilità questo deve essere il cambio di passo attorno a cui ragionare e sul quale modellare la nostra economia. Dobbiamo lasciarci alle spalle il vecchio sistema basato sul nanismo imprenditoriale e sul basso costo. Un discorso che vale in ogni settore compreso quello turistico: da noi il turismo finora è stato di massa, ora va ripensato immaginando di farlo vivere nei borghi, attraverso lo sviluppo di una rete di qualità che dia respiro alla nostra terra. I licenziamenti di massa che potrebbero arrivare alla fine del blocco renderebbero impossibile una transizione di questo tipo”.

Una risposta indiretta al presidente di Confindustria Carlo Bonomi, ostile a ogni idea di proroga fino a etichettarla come una misura vecchia e conservatrice, penalizzante nei confronti delle imprese. Per guardare al futuro – chiarisce il sindacato padovano – abbiamo due chiavi: il lavoro da tutelare e l’innovazione da percorrere. Non esiste l’una senza l’altro.