PHOTO
Si può morire a sessantasei anni nel cuore di Roma, a due passi dal Colosseo, inghiottiti dal crollo di una torre medievale mentre si cerca di rimetterla in piedi? Evidentemente sì. Anzi, pare quasi un dovere patriottico. Lavorare fino alla tomba, la pensione come miraggio e la morte come chiusura partita Iva. È venuto giù un frammento di storia e sotto ci è rimasto Octav Stroici, uno di quelli che la storia la reggono in silenzio.
Ogni volta si parla di fatalità, di tragico incidente, come se i muri crollassero per capriccio. Invece dietro ci sono scelte, tagli, omissioni, una cultura che considera la sicurezza un peso e l’età un difetto. Un Paese che chiama sacrificio ciò che è solo sfruttamento e onore ciò che somiglia più alla resa.
Sessantasei anni e ancora in cantiere. Non per passione, ma per necessità. In un’Italia dove si precipita più facilmente nel bisogno che in pensione. Dove la vecchiaia non libera ma inchioda e chi continua a tirare avanti viene travolto dal lavoro stesso, con il casco in testa e la dignità sepolta.
Roma saluta Octav mentre si moltiplicano i comunicati, le condoglianze d’ordinanza, le promesse di “fare chiarezza”, il solito rito laico del lutto produttivo. Poi cala la polvere, e tutto torna com’era, fino al prossimo turno di morte.
Nel frattempo si esaltano il “merito”, la “resilienza”, la “flessibilità”. Parole lucide come vetrine, che coprono la stanchezza di chi lavora fino a cedere. I datori chiedono di allungare la carriera, i governi approvano e gli operai scompaiono. Come se vivere fosse un abuso di permesso e morire in servizio un atto di fedeltà.
Le pietre e i detriti verranno portati via, ma il crollo resta aperto. Non nella torre ma nel Paese. Finché chi lavora verrà sepolto sotto ciò che costruisce, l’Italia potrà pure restaurare i suoi monumenti, ma resterà sempre un rudere morale.






















