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Scioperano i metalmeccanici, sciopereranno nei prossimi giorni gli addetti Multiservizi e gli alimentaristi. Il 5, il 13 e il 16 novembre. Settori diversi legati tutti da un unico filo rosso e da un’unica rivendicazione: il diritto al contratto collettivo nazionale di lavoro. Davanti all’ostruzionismo di Confindustria e delle sue associate, restano ancora in attesa 10 milioni di lavoratori del settore privato ai quali si aggiungono almeno 3 milioni di dipendenti pubblici che, in stato di agitazione, chiedono maggiori risorse a partire proprio dal rinnovo contrattuale.
Essenziali molti di questi lavoratori, in un periodo in cui la pandemia li vuole comunque operativi. Essenziale sempre il contratto, tanto più in una situazione di crisi economica come quella prodotta proprio dalla diffusione del virus. Lo conferma l’ultimo studio realizzato dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio che torna a sollevare la questione salariale. In Italia il ritardo - fino, in alcuni casi, al blocco - dei rinnovi è tra le principali cause di una stagnazione salariale che costa moltissimo a chi lavora e che alimenta un circolo economico affatto virtuoso perché chi poco guadagna poco ha da spendere.
Così se in Francia e in Germania negli ultimi vent’anni i salari lordi medi sono cresciuti a ritmi consistenti, rispettivamente del 21,4% e del 18,4%, da noi si sono fermati al 3,1%. Eppure è proprio sui salari che i tavoli con le associazioni degli industriali – e anche quelli con il governo - si arenano. Rinnovi sì – ripetono gli imprenditori pressoché in ogni occasione possibile – ma ad aumenti zero. È anche per questo che, come certifica l’Istat, i tempi medi di attesa per un rinnovo aumentano ed è cresciuta negli ultimi anni la platea di chi è costretto ad aspettare. Una condizione che si riflette sui consumi e che, in questa fase, diventa ancora più inaccettabile.
Per Tania Scacchetti, segretaria nazionale della Cgil: “I contratti nazionali di lavoro devono essere lo strumento per difendere e rilanciare il potere d’acquisto e per gestire le riorganizzazioni e la ripartenza delle attività, a partire dalla valorizzazione delle competenze, dalla gestione degli orari e delle flessibilità, dall’utilizzo degli ammortizzatori sociali. Tutti temi che non possono essere affrontati unilateralmente dalle imprese, ma devono vedere un grande protagonismo del lavoro e del sindacato. Le nostre proposte – spiega - sono chiare, tra queste anche la detassazione degli aumenti contrattuali per favorire il loro rinnovo e rilanciare i consumi. In Italia esistono un’enorme questione salariale e un drammatico problema di qualità dell’occupazione, e in assenza di interventi si rischia di peggiorare il quadro”.
A dire il vero che la questione salariale e quella contrattuale viaggiano lungo questo binario e che potenziare salari e contratti fa bene non solo ai lavoratori ma all’intera economia inizia forse a essere chiaro anche a una parte del mondo imprenditoriale come dimostra la vicenda del contratto degli alimentaristi. Firmato a luglio da tre associazioni rappresentative di aziende importanti del settore come Barilla e Ferrero (Unionfood, Ancit e AssoBirra), quel contratto è stato siglato nelle scorse settimane anche da Assica (Associazione industriali delle carni e dei salumi) e Mineracqua (Federazione delle industrie delle acque minerali e delle bevande analcooliche) e, soprattutto, viene già applicato in molte imprese aderenti a Federalimentare che, invece, a luglio non firmò e che tenta finché può di mantenere la linea intransigente dettata da Confindustria. Ammesso che si possa.