Solo un lavoratore o lavoratrice su 10 nell’ultimo anno non ha avuto alcun disturbo – fisico o psicologico – nello svolgere la propria occupazione. Sono i dati, allarmanti, che emergono dal capitolo dedicato alla salute psico-fisica degli occupati nell’Inchiesta nazionale sulle condizioni e le aspettative delle lavoratrici e lavoratori promossa dalla Cgil nazionale, coordinata dalla Fondazione Di Vittorio e condotta in collaborazione con le strutture della Confederazione.

Un’indagine capillare, coordinata da Daniele Di Nunzio della Fondazione Di Vittorio, e che ha raggiunto circa 31 mila lavoratrici e lavoratori di tutti i settori pubblici e privati, tutte le dimensioni di impresa, tutte le tipologie contrattuali e anche a chi era senza contratto o disoccupato.

I disturbi più diffusi riguardano l’apparato muscolo-scheletrico e lo stress. Si tratta del 67,8 e del 65,2% di chi ha segnalato almeno un disturbo. Seguono i disturbi legati all’ansia (39,9%) alla vista (38,2%) e il mal di testa (32,5%). Rispetto alla distribuzione complessiva, tra i più giovani si rileva una maggiore diffusione di mal di testa, ansia e stress, così come pure per la componente femminile. Insomma: dati che confermano la centralità che deve mantenere la lotta per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro.

Il disagio psico-sociale

L’indagine si è però concentrata in particolare su un tipo di disagio – quello psico-sociale – spesso trascurato. Anche se, ovviamente, la salute fisica e psichica dei lavoratori e delle lavoratrici sono collegate. Il portato più interessante e che emerge con forza dal focus, spiega Gianluca De Angelis, ricercatore Ires Emilia-Romagna e curatore del capitolo, “è la dimensione non solo ‘individuale’ ma anzi ‘collettiva’ di questo tipo di disagio che spesso è legato a fattori organizzativi, ambientali: tutti temi sui quali il sindacato ha la forza di poter intervenire”. 

Questo intreccio tra individuale e collettivo è molto importante, mentre invece, aggiunge il ricercatore, “il benessere psico-sociale costituisce una dimensione della salute che per molti anni è stata relegata alla sfera individuale del lavoratore e della lavoratrice, separata da quella collettiva e dell’organizzazione del lavoro. Oggi sappiamo che non è così e che il lavoro e la sua organizzazione giocano un ruolo straordinario sul benessere psico-sociale dei lavoratori e delle lavoratrici. E invece, mentre la necessità è quella di prevenire agendo su questi fattori, le imprese, se e quando intervengono, lo fanno spesso a valle, cioè dopo”. 

Avere scadenze rigide e strette, sostenere un ritmo di lavoro eccessivo, sostenere un carico di lavoro eccessivo, fare lavori ripetitivi e noiosi sono alcuni dei fattori che producono maggiore disagio, mentre un grado discreto di autonomia e di controllo dell’orario di lavoro diminuisce il disagio stesso. Sono ovviamente dati prevedibili. Interessante però incrociarli con alcune variabili, di genere e generazionali.

Donne e giovani

“Questi fattori – analizza De Angelis – sono sorprendentemente meno decisivi come motivi di disagio tra giovani e donne. Il che vuol dire che per queste ‘categorie’ ci sono in ballo altre ragioni. In questi casi a entrare in gioco sono piuttosto altri fattori, come la mancanza di autonomia. Nelle donne si spiega facilmente con il fatto che a esse ancora è nella maggior parte dei casi affidato il lavoro di cura, mentre per i giovani magari è importante avere tempo libero nei weekend o possibilità di crescita professionale”.

Il tema della soddisfazione

Nei giovani fra i parametri che spiegano il disagio psico-sociale la retribuzione occupa un peso meno rilevante che nelle altre fasce di età. “Quando sei più giovane, e magari non hai ancora una famiglia e quindi minori ‘pensieri’ economici – aggiunge il ricercatore – contano maggiormente altri fattori: l’autonomia, la soddisfazione, la qualità del lavoro, la possibilità di far carriera. Tutti aspetti collegati ovviamente anche alle dinamiche retributive, ma non riducibili solo a esse”.

Sono, questi, spunti interessanti per la contrattazione e per l’agire del sindacato. “Senza nulla togliere all’importanza della questione salariale o a quella degli orari – osserva il ricercatore dell’Ires Emilia Romagna – quando si avvicina ai giovani il sindacato deve tenere conto di questi aspetti anche qualitativi, e cioè non solo quantitativi".

I settori

Altro elemento interessante che emerge dall’indagine è quello che riguarda i settori dove maggiormente si annida il disagio psico-sociale. Sorprendentemente al primo posto non sta il lavoro operaio o manuale. Sono, invece, gli operatori e le operatrici dei servizi socio-sanitari a rappresentare il gruppo in cui la quota di persone con forme di disagio è maggiore (75,2%). Segue chi lavora nei servizi di vendita al pubblico (71,4%). “Si tratta di ambiti molto diversi tra di loro, ma con un elemento fortemente caratterizzante in comune – chiosa De Angelis –: entrambi prevedono un contatto diretto con il ‘pubblico’, con tutto ciò che comporta sul piano emotivo. Inoltre, le rilevazioni sono state fatte in coda alla pandemia, con tutto quello che questa ha rappresentato in particolare per questi comparti”.

Quanto al lavoro operaio o tecnico, si tratta del gruppo in cui il disagio psico-sociale è meno diffuso (54,6%). Conta, probabilmente, la mancanza di stress che à il contatto diretto col pubblico, specialmente in questo periodo, ma anche gli orari e le responsabilità ben definite dalla contrattazione”. Tutto materiale utile, questo, per un sindacato che nella contrattazione possa intercettare sempre meglio e risolvere i problemi che lavoratrici e lavoratori affrontano ogni giorno.

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