Basterebbe guardare il quotidiano della nostra categoria per trovare le tante ragioni, o le tante mancanze, che giustificano lo sciopero. Siamo tutti impattati dalla digitalizzazione, da quella esistente e da quella che verrà. I cambiamenti sono profondi, vanno dal modo di produrre e di consumare beni e servizi, alla mutazione della socialità, della vita delle persone. Ma la digitalizzazione è un processo complesso, ha bisogno di regole, di tanta cultura e di pari opportunità, tutte cose che non saranno garantite dal mercato. Servirebbe un importante e sapiente intervento pubblico, una politica industriale, ed invece in attesa che “il mercato” decida le non scelte del Governo rischiano di uccidere Tim una seconda volta, dopo averla lasciata depredare negli ultimi vent’anni.

Ma lo sciopero generale serve soprattutto perché non hanno capito. Lo stupore, la sorpresa, il fastidio per lo sciopero a fronte di una legge di bilancio espansiva dimostra solo questo: non hanno capito. Non hanno capito che il tempo del cambiamento è ora, che le risorse che per la prima volta abbiamo a disposizione non possono essere usate per rammendare una tela squarciata dagli eccessi del liberismo degli ultimi trent’anni, dalle disuguaglianze crescenti, dalle opportunità rubate.

La Pandemia, per ultimo, chiede a tutti di cambiare passo, di tornare ad una politica che sceglie il bene delle persone, che riduca le diseguaglianze e non accetti più di essere subordinata alle leggi del business e del mercato perché così va il mondo. Se, anche quando si cresce oltre il 6%, il lavoro continua ad essere povero e precario, se interi settori produttivi stentano a ritrovare la via dello sviluppo, se i bisogni delle persone non rientrano negli obbiettivi di chi decide, allora serve cambiare verso, non cercare di rabberciare l’esistente. Questo non hanno ancora capito, per questo serve lottare.