Ancora tutto da decifrare il futuro della Pernigotti, storica azienda dolciaria di Novi Ligure (Alessandria). Il 6 novembre scorso il gruppo turco Toksöz, che detiene l'azienda, ha annunciato la chiusura dello stabilimento, ma non la dismissione del marchio. L’intenzione della proprietà, infatti, è quella di commercializzare gianduiotti e torroni con il marchio Pernigotti, facendoli però produrre ad altre imprese (già oggi il 60 per cento delle produzioni avviene in Turchia). Una situazione molto complicata, che martedì 5 febbraio verrà affrontata a Roma, in un vertice al ministero dello Sviluppo economico (appuntamento alle ore 12). Sul tavolo per ora c’è soltanto il probabile accordo per la concessione della cassa integrazione straordinaria o per cessazione ai circa 100 lavoratori dell’impianto, che sono in assemblea permanente e che da tre mesi non percepiscono stipendi.

“Il ministero dello Sviluppo economico si assuma la responsabilità di fare chiarezza sulle diverse ipotesi di acquisto della Pernigotti che continuano a circolare, ma di cui non si ha alcuna certezza”. A chiedere l'intervento del governo è il segretario generale della Flai Cgil di Alessandria Marco Malpassi. “Continuano a susseguirsi indiscrezioni su possibili acquirenti”, prosegue l’esponente sindacale: “Dopo la Sperlari, che però parrebbe un'ipotesi già tramontata, resta il fondo indiano e circola la voce dell'interesse di un'azienda toscana, mentre i lavoratori continuano a rimanere nella più assoluta incertezza”.

Da settimane, infatti, si parla di manifestazioni d’interesse per l’impianto di Novi Ligure. All’inizio si era fatta avanti la cremonese Sperlari (dal settembre 2017 di proprietà della tedesca Katjes International Gmbh), poi la novarese Laica, ma non si sarebbe andati oltre il semplice pour parler. Più consistente è apparsa l’ipotesi – tuttora in campo – di un fondo d’investimento indiano, con base a Zurigo, di cui fanno parte 1.200 aziende: l’offerta riguarderebbe l’intero pacchetto (stabilimento e marchio), rilevando la maggioranza delle quote societarie e lasciando ai fratelli Toksöz la rete commerciale dei prodotti in Oriente. Negli ultimi giorni, infine, è circolato anche il nome dell’azienda senese Sielna, che recentemente ha acquistato il marchio Nannini. Finora, però, ancora nullo di concreto: da qui la richiesta della Flai al ministero, stante “la confusione che non fa che alimentare la preoccupazione dei lavoratori”, di attivarsi al fine di “chiedere alla proprietà turca di fare chiarezza”.

L’ultimo incontro tra governo, azienda e sindacati si è tenuto l’8 gennaio scorso. In quell’occasione l’esecutivo ha dato un mese di tempo all’advisor milanese Sernet (appunto, fino a martedì 5) per valutare le proposte pervenute per l’acquisto della società detenuta dai fratelli Ahmed e Zafer Toksöz (a capo di una multinazionale attiva su più comparti, in primis quelli farmaceutico e vinicolo). Un vertice, comunque, molto deludente per i sindacati. “I rappresentanti dell'azienda – commentò Mauro Macchiesi, segretario nazionale Flai Cgil – hanno continuato a tenere un atteggiamento di chiusura su qualsiasi ipotesi di vendita del marchio, proponendo contratti di fornitura a terzi e la vendita dei macchinari dello stabilimento, senza nessun patto sociale che accompagni gli ammortizzatori sociali”.