L’Aula ha concluso finora l'esame dei primi articoli del ddl collegato alla manovra di finanza pubblica, accantonandone alcuni. L’esame è stato aggiornato a mercoledì 15 ottobre. Tra le novità, sanzioni amministrative più severe per i datori (escluso il lavoro domestico) che impiegano dipendenti senza aver comunicato l'instaurazione del rapporto di lavoro. La sanzione andrà da 1.500 a 12.000 mila euro per ciascun lavoratore impiegato “in nero”, maggiorata di 150 euro per ciascuna giornata di lavoro effettivo.

Passa anche a un emendamento all'articolo 23, che prevede l'esclusione delle forze dell'ordine dalle categorie comprese tra i lavori usuranti. Perché in questo corposo provvedimento rientra anche la delega al governo sulla revisione della disciplina in materia, che dovrebbe consentire a chi svolge mansioni faticose di anticipare di tre anni il pensionamento.

Proprio prendendo spunto da quest’ultima decisione, l’opposizione ha chiesto – inutilmente – che il provvedimento ritorni in commissione: come ha spiegato l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, il governo "ha contraddetto se stesso bocciando in commissione Bilancio le proposte presentate in commissione Lavoro dal relatore di maggioranza. Norme-bandiera che allargavano i benefici al lavoro autonomo e alle forze dell'ordine senza prevedere, come da noi richiesto, l'apposita copertura finanziaria".

Ma le misure del provvedimento non si fermano qui, e portano quasi tutte cattive notizie: dallo stop alla stabilizzazione dei precari alla territorializzazione dei concorsi, per concludere con una serie di norme che depotenziano l’operatività dei giudici del lavoro, limitandone i poteri in caso di vertenze da parte di lavoratori. Appunto, come si diceva in apertura: meno diritto del lavoro.


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Vedi la rubrica parlamentare: l’esame del ddl nelle commissioni


A parere di molti tecnici e giuristi, è in atto il tentativo di aggirare l’articolo 18. Un tentativo estremamente debole, però, che troverà scarse adesioni nella magistratura.

Articolo 18 o risarcimento danni?
Un articolo del provvedimento stabilisce, infatti, che nell’esaminare una causa di lavoro il magistrato dovrà tenere conto delle 'tipizzazioni' della giusta causa e del giustificato motivo contenute sia nei contratti collettivi sia nei contratti individuali di lavoro stipulati davanti alle cosiddette 'commissioni di certificazione'. E, nel definire le conseguenze da riconnettere al procedimento, il giudice dovrà tenere conto degli elementi e dei parametri fissati dai vari contratti (anche individuali), ma dovra' tenere presente anche 'le dimensioni e le condizioni dell'attivita' esercitata dal datore di lavoro, l'anzianita' e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento'. In parole povere, se il ddl dovesse essere convertito in legge, la reintegrazione del posto di lavoro garantita dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori verrebbe sostituita da un risarcimento danni. Per di più si tratterebbe di una reintegrazione a 'fisarmonica' e il giudice sarebbe vincolato a quanto stabiliscono i contratti individuali anche se prevedono cose differenti rispetto a quelli collettivi. In caso di licenziamento per 'riduzione del personale', tra l’altro, sarà impossibile presentare ricorso perché il termine fissato nel ddl per farlo è di 120 giorni: esattamente lo stesso tempo che ci vuole per sapere se la riduzione del personale sia o meno la vera causa di licenziamento.

Senza contare che dal provvedimento emerge nettamente il contrasto tra il principio costituzionale in base al quale ogni giudice è soggetto soltanto alla legge, e il tentativo del governo di introdurre i contratti collettivi tra i parametri vincolanti di valutazione.

Arbitrato obbligatorio
Un’altra norma pericolosa del ddl, secondo il giuslavorista Massimo Roccella (sentito alcuni giorni fa da Radioarticolo1) riguarda l’arbitrato. Spiega Roccella: “Si potrebbe infatti determinare che il lavoratore, nel momento della stipula del contratto, sia posto di fronte all’alternativa se essere assunto o meno, a condizione di accettare o no l’arbitrato e finisca per accettarlo, rinunciando sin dall’inizio alla possibilità di ricorrere ad un giudice del lavoro. 'Ci troveremmo di fronte –continua Roccella - ad una sorta di arbitrato obbligatorio: verrebbe meno il principio dell’inderogabilità della norma giuslavoristica e si precluderebbe sin dall’inizio la possibilità di rivolgersi ad un giudice del lavoro”. Per tutti questi motivi il professor Roccella afferma che “quella norma deve essere assolutamente cassata dal Parlamento”.

Il 21 ottobre la Consulta giuridica della Cgil incontrerà al Cnel parlamentari, operatori del diritto e rappresentanze sindacali, per denunciare quanto sta avvenendo e costruire la mobilitazione necessaria. Scarica la locandina dell’appuntamento. Interverranno, oltre al già citato Roccella, Piergiovanni Alleva, Amos Andreoni, Vittorio Angiolini, il ministro Damiano, Fulvio Fammoni e molti altri.