Gli italiani non si sentono più europei. Non è una frase a effetto, ma solo un “titolo” per dare l’idea della percezione che, nel nostro Paese, chi vive del proprio lavoro e della propria pensione ha del salario che riceve, del reddito che gli consente di andare avanti. Lontani dall’Europa. Più semplicemente: impoveriti e senza grandi speranze di miglioramento. Questo il sentiment che emerge da un’indagine demoscopica curata dall’Osservatorio Futura per la Cgil.

È una vecchia storia, quella di non sentirsi al passo dei redditi europei. Ma adesso la percezione si è acuita. L’indagine, svolta a dicembre 2022, conferma la sensazione di un elevato divario tra le proprie retribuzioni e quelle del resto dei Paesi Ue: l’86% degli intervistati non le ritiene allineate alla “normalità” della Ue.

“Il percepito di retribuzioni più contenute - leggiamo nelle Sintesi dell’indagine - si conferma anche quando lo si rapporta alla quantità/qualità di lavoro svolto e al caro vita: per il 59% del campione le retribuzioni italiane non solo non consentono di far fronte appieno al costo della vita, ma sono inadeguate anche rispetto al lavoro svolto. Solo il 3% del campione le reputa invece adatte sia al lavoro svolto che al tenore di vita”.

Il confronto tra le retribuzioni italiane ed europee

Peggio pensionati e dipendenti privati

Tra le categorie di lavoratori prese in esame, i pensionati e i dipendenti privati si confermano i più svantaggiati. Il campione si spacca tra chi è più o meno soddisfatto della propria retribuzione (37%) e chi invece mostra segni di malessere (48%). Questi ultimi sono in crescita di un 4% rispetto ad aprile. Il bilancio tra soddisfatti e insoddisfatti è ancora più negativo, con una più netta predominanza degli insoddisfatti (+11%).

“I salari sono stati falcidiati”

“Lo si ripete da molto tempo - commenta Francesca Re David, segretaria confederale della Cgil -, gli italiani percepiscono salari più bassi rispetto alla media europea, e affrontano anche orari più lunghi. La nostra Europa di riferimento sono però Francia e Germania, non i Paesi dell’Est. Perché l’Italia, non dimentichiamolo, è il secondo Paese manifatturiero del continente”. 

Tra pandemia, crescita dell’inflazione e cassa integrazione “i salari sono stati falcidiati”, spiega Re David: “Sono fattori che, sommati tutti insieme, hanno avuto un effetto dirompente, e sono stati percepiti in modo consistente dai lavoratori”, come l'indagine dell’Osservatorio conferma. 

La soddisfazione rispetto alla propria retribuzione

Tasse e mancati rinnovi: ecco i colpevoli

“Naturalmente - prosegue Re David - questa percezione si può interpretare in diversi modi. Un primo elemento da considerare è che in Italia i salari sono erosi dalle tasse. L’Irpef la pagano i lavoratori. Le imposte locali sono altissime. A fronte di un costo del lavoro che è nella media europea, il peso delle tasse sui lavoratori resta elevato. Ma l’imposizione fiscale è così alta perché c'è troppa evasione”. 

Altro elemento importante, secondo la dirigente sindacale: “In molti settori i contratti non vengono rinnovati. L'industria li ha rinnovati. Nel terziario invece sono scaduti da tempo. Anche il settore pubblico li ha rinnovati solo dopo molto tempo. Ogni mancato rinnovo danneggia gli aumenti salariali, è evidente. E la contrattazione di secondo livello, sebbene imprese e governo continuino a parlarne, in realtà riguarda solo una parte dei lavoratori: il 20-30% delle imprese e metà circa degli addetti. L’insieme di tutto ciò porta al risultato che abbiamo sotto gli occhi”.

Pessimismo per i prossimi due anni

Dall’indagine dell’Osservatorio emerge con chiarezza la mancanza di aspettative per il futuro immediato: per circa un intervistato su quattro la retribuzione è destinata a peggiorare nei prossimi due anni. Questo timore è cresciuto del 5% rispetto alla prima parte del 2022. “I più pessimisti sono gli over 55 e gli impiegati. I più ‘positivi’ sono giovani, laureati e con una Partita IVA”, si legge nella Sintesi.

L’80% vuole una legge sul salario minimo

“La principale causa di disallineamento tra retribuzione e costo della vita - spiegano gli analisti dell’Osservatorio Futura - è fatta risalire a un deficit normativo che non tutela a sufficienza i lavoratori. In seconda battuta si avverte anche l’eccessiva frammentarietà delle categorie lavorative. La mancata tutela da parte dei sindacati, la pandemia e la guerra in Ucraina hanno lo stesso peso (circa 30%) sul dislivello retribuzioni/costo della vita”. Oltre l’80% del campione intervistato è favorevole a una legge che imponga un salario minimo.

Il ruolo dei sindacati

Il peso attribuito alle organizzazioni del lavoro aumenta rispetto ad aprile 2022: “Si registra infatti un incremento della loro importanza - leggiamo nella Sintesi-, che passa dal 28% di aprile al 41% di dicembre. Per far fronte alla generale disillusione e alle preoccupazioni di un immediato futuro, i sindacati avrebbero spazio per: lavorare con il governo per leggi che garantiscano retribuzioni adeguate; appoggiare le aziende perché siano sottoposte a una minore pressione fiscale, destinando maggiori risorse alle retribuzioni; contrattare con le aziende stipendi più elevati”.

Un’erosione senza precedenti

“I lavoratori hanno ragione - commenta ancora Re David -, ma frammentazione e precarizzazione hanno reso molto difficile la rappresentanza sindacale. Un lavoratore precario è spesso ricattabile, non si avvicina al sindacato e si sente solo. Fino al secolo scorso, in Italia, le leggi sostenevano il lavoro, ma dalla fine degli anni Novanta a oggi hanno smesso di farlo, c'è stata una inversione di rotta e per 25 anni la legislazione è andata contro i lavoratori. Il diritto del lavoro ha subito un’erosione senza precedenti, e di conseguenza si sono ridotti anche i salari”.

Non ci si difende da soli

“Non siamo riusciti a interrompere questo processo - prosegue la segretaria confederale Cgil -, intrapreso nel corso dei decenni da governi di tutti i colori politici. Ma è un'illusione che ci si possa difendere da soli. Si è in mano a chi il lavoro te lo dà e per un periodo, ma solo per un periodo, può andare bene. Un informatico ad esempio all'inizio se la cava, ma a 40 anni d’età viene sostituito perché considerato ‘superato’. Serve il sindacato: e questo è il compito più difficile ma l’unico possibile. Purtroppo le leggi sono andate in direzione contraria. Non è il sindacato che ha scritto queste leggi, però non è stato in grado di contrastarle. Ma nessuno ci darà leggi più giuste se i lavoratori non si mobilitano”.

Le misure da prendere

Che fare, dunque? Per Re David, innanzitutto, occorre un intervento sul cuneo fiscale, che vada “tutto a vantaggio dei lavoratori, come richiesto unitariamente da Cgil, Cisl e Uil. Serve poi una normativa sul salario minimo accompagnata da una legge sulla rappresentanza che indichi i sindacati rappresentativi e i contratti collettivi di riferimento per misurare il salario minimo stesso”.  Un salario minimo, insomma, precisa la dirigente sindacale, andrebbe “indicato anche per legge: ossia una cifra sotto la quale non si possa scendere, perché in settori deboli, penso ad esempio al caso delle guardie giurate, ci sono contratti che sono sotto la soglia di un salario accettabile”.