Secondo il recente rapporto Bes Istat la pandemia ha indotto una battuta d’arresto nella formazione continua. Stando ai dati commentati dal rapporto, mentre nel secondo trimestre del 2019 il ricorso alla formazione continua – ma nello specifico sarebbe più corretto parlare di formazione permanente – ha raggiunto l’8,9% della popolazione tra i 25 e 64 anni ( di fronte a una media europea dell’11,4%), nel 2020 la percentuale è scesa al 7,2% come media nazionale. In analogia con quanto avvenuto nel sistema di istruzione, anche nella formazione, a seguito della pandemia Covid, ci sono stati interventi normativi e regolamentari che hanno introdotto forti limitazioni in particolare alla possibilità di svolgere attività di formazione in presenza. 

Lo stesso Protocollo siglato tra Governo e parti sociali il 24 aprile 2020 per il contrasto e il contenimento del virus nei luoghi di lavoro ha previsto il divieto di svolgere all’interno delle imprese qualunque attività di formazione in modalità aula in presenza. Le Regioni, relativamente alle attività di formazione da loro finanziate, hanno dato la possibilità di trasformare la formazione in presenza in formazione a distanza e a queste indicazioni si è attenuta anche l’Anpal nelle istruzioni fornite ai fondi paritetici interprofessionali che finanziano la formazione per i lavoratori e le lavoratrici occupate. 

In base ad una ricerca presentata da Skilla in un seminario organizzato da Foragri a febbraio 2021, nell’ambito della formazione finanziata dai fondi interprofessionali, il dato medio relativo all'utilizzo della Fad che si attestava al 6,5% nel 2019, è diventato del 38,5% nel 2020, a seguito dell'emergenza Covid, e si presume si attesterà al 27% superata l'emergenza. L’attività di formazione ha quindi avuto una sua continuità nonostante la pandemia in corso, ma si sono modificate le modalità di erogazione della stessa e proprio su questo come Cgil abbiamo ragionato lo scorso 23 settembre in un’iniziativa di approfondimento sulle metodologie formative a distanza e sull’efficacia, la tracciabilità e la certificazione della formazione così erogata, perché anche in questo caso non si tornerà alla situazione pre-pandemica. 

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Il sistema della formazione, ma si potrebbe dire il sistema Paese, non era  pronto a questo cambio di paradigma ed è quindi anche, ma ovviamente non solo, per questo, che è inevitabilmente diminuita la percentuale di persone che hanno potuto usufruire di attività di formazione. Cosa peraltro avvenuta anche in altri Paesi europei dove la quota di coloro che hanno partecipato ad attività di formazione ha subìto, sempre secondo il rapporto Bes, cali notevoli: la Danimarca ad esempio è passata dal 25,8% del secondo trimestre 2019 al 14,6% del secondo trimestre 2020, la Francia dal 20,7% al 7,8% e così via.  

Uno degli ulteriori  problemi evidenziati anche dal rapporto Bes è relativo al possesso di  competenze digitali della popolazione italiana, una situazione tra le peggiori in Europa. Nel 2019 soltanto il 22% degli individui tra i 16 e i 74 anni ha dichiarato di avere competenze digitali elevate a fronte di una media europea (Ue a 27) del 31%. La quota del 22% diminuisce con l’avanzare dell’età e arriva al 20% tra le persone di 45-54 anni e al 4,4% tra le persone di 65-74 anni. Il contrasto all’analfabetismo  digitale è uno dei motivi per cui occorre arrivare alla definizione di un sistema di apprendimento permanente che consenta alle persone di avere occasioni formative lungo tutto l’arco della loro vita. L’acquisizione costante di conoscenze e competenze è indispensabile ad ogni età per contrastare diseguaglianze, ridurre i divari educativi, partecipare attivamente ad un mercato del lavoro sempre più segmentato, affrontare il lavoro che cambia, rafforzare la possibilità di scelta di chi lavora. Queste sono le ragioni che stanno alla base della necessità di costruire un sistema di apprendimento permanente nel nostro paese.

In questo contesto assume particolare rilievo l’aggiornamento, la riqualificazione e la ridefinizione delle competenze professionali dei lavoratori, una condizione senza la quale non è possibile affrontare i processi di cambiamento strutturale indicati con l’individuazione dei tre assi strategici (digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale) anche dal Piano nazionale di ripresa e resilienza  finanziato con ingenti risorse europee. 

Investire sulla formazione di chi lavora significa non solo dare concretezza a quel diritto all’elevazione professionale costituzionalmente garantito ma, attraverso il ruolo fondamentale che la contrattazione può svolgere, rendere  le competenze acquisite nel percorso formativo uno strumento in grado di incidere positivamente sui percorsi professionali dei lavoratori e delle lavoratrici. 

Nuovi strumenti come il Fondo nuove competenze – per ora finanziato da risorse europee e dello Stato con le quali è possibile per le imprese recuperare il costo del lavoro dei dipendenti in formazione – sono un’occasione importante per misurarsi con queste nuove sfide, un’occasione che non va sprecata ma utilizzata anche per costruire buone pratiche contrattuali.

Simonetta Ponzi è responsabile della Formazione continua e permanente per la Cgil nazionale