“Il guaio è di chi muore, i responsabili, quelli che restano vivi, trovano sempre una soluzione. Il guaio è dei parenti delle vittime. Il guaio è di mia madre, che tutte le mattine va al cimitero e non si dà pace perché ha perso un figlio”.

Ecco la verità nuda e cruda delle morti sul lavoro. Una lezione che Antonio Traetta ha imparato con la morte di suo fratello Tommaso, di 6 anni più giovane.

Aveva appena 24 anni l’11 aprile del 2015, quando una scarica elettrica l’ha fulminato lì sul tetto di un casolare in costruzione, dove stava lavorando e dove è stato ucciso. Difficile chiamarlo incidente, più realistico provare con il termine omicidio. Perché quando si eludono tutte le norme di legge e tutte le regole di semplice buon senso che andrebbero seguite nello svolgimento di un’attività, la fatalità c’entra poco o nulla.

Tommaso era in nero. E il progetto era un abuso. Alla sbarra del lentissimo processo in corso – non sono bastati questi cinque anni per arrivare alla sentenza di primo grado – c’è una folla, il che la dice lunga sulla intricata rete di responsabilità.

Poi c’è la nuda cronaca di quell’attimo che basta a bruciare una vita di poco più che vent’anni, a chiudergli per sempre gli occhi, a spegnere per sempre i sogni, le speranze e gli entusiasmi. Siamo nella campagna della provincia di Taranto, dalle parti di Ginosa. Un gruppo di operai sta tirando su una casa. Quel giorno c’è da eseguire il getto sul solaio. Tommaso e un altro ragazzo sono sull’impalcatura. “L’autista della betoniera, di proprietà di una ditta locale, aveva già iniziato le manovre per portare il braccio telescopico nel punto dove andava la gettata dell’impasto. Lì accanto passava la linea dell’alta tensione a 20mila volts. L’autista passò il braccio sopra i cavi con una manovra a scavalco. Mio fratello prese l’estremità del tubo tra le mani, ma quando colò la gittata il braccio oscillò e toccò i fili. La scossa fulminò Tommaso in un attimo. Chiamarono il 118, ma ogni tentativo di rianimarlo fu vano”.

Cosa non andò? Praticamente tutto, ci racconta Antonio. Perché la distanza di sicurezza tra braccio e cavi dovrebbe essere di almeno tre metri e mezzo e quella mattina non fu più di 50 centimetri. Perché i capi non avevano chiamato l’Enel per chiedere un’interruzione di corrente. Perché nel cantiere non esisteva un responsabile della sicurezza. “Perché il fabbricato era abusivo e mio fratello era in nero. Il perito, quando simularono sul posto l’operazione per come si era svolta, disse senza mezzi termini che erano stati dei pazzi. E mio fratello è morto per rispetto di una regola in base alla quale quando l’autista della betoniera dice che si può gettare, si getta. Ma Tommaso lo sapeva e lo diceva che quello lì era un incapace, questo è emerso dalle testimonianze raccolte nel processo. Eppure quell’uomo continua ancora oggi a fare lo stesso lavoro. Nessuno l’ha fermato”.

E il processo penale? “Quattro imputati – ci racconta Antonio –. Il proprietario del terreno, suo figlio, committente di fatto della costruzione, il proprietario della betoniera e l’operatore che conduceva le manovre. I primi due hanno patteggiato e se la sono cavata con niente: un anno di pena con sospensione condizionale e noi adesso stiamo agendo civilmente come familiari. La causa sta andando avanti per gli altri due. Le indagini preliminari sono state fatte e adesso hanno iniziato a sentire i testimoni, al ritmo di una udienza ogni sei mesi. Considerando anche i rallentamenti dovuti alla pandemia chissà quando finirà”.