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La conduzione economico-finanziaria di un Paese funziona più o meno, su fattori di principio, come quella di una famiglia: si stabiliscono delle priorità in base alle esigenze delle diverse componenti e su queste, in base alle entrate, si definiscono le spese. Spesso la coperta è corta, come si sul dire, a meno che la famiglia o lo Stato siano particolarmente floridi, quindi bisogna fare delle scelte sempre sulla base delle priorità suddette.
L’Italia non è uno Stato particolarmente florido, considerato il debito pubblico ma non solamente, e chi lo amministra, gli adulti della famiglia, quindi il governo, sembra avere delle ben strane priorità che non vanno nella direzione della tutela dei cittadini, quindi dei figli e degli altri componenti della famiglia. Tanto è vero che limita le spese per preservare la loro salute, ad esempio, e incrementa quello per le armi con la motivazione di proteggerli dagli attacchi esterni e infondendo loro una paura che sostenga le loro scelte.
I numeri
Questo è letteratura, ora ci sono i conti. Si è registrato infatti un sostanzioso aumento delle spese militari (allocate nel ministero della Difesa, dell’Economia e delle Finanze e delle Imprese e del Made in Italy) di oltre il 12% nel 2025, con ben 40 miliardi di euro per acquisto e costruzione di sistemi d’arma in tre anni, dal 2025 al 2027. Nel 2025 la spesa militare prevista sarà di oltre 31 miliardi, di cui 13 solo per le armi. Per la prima volta nella storia viene dunque superata la quota complessiva di 30 miliardi.
Una situazione che peggiorerà se passerà la linea statunitense al prossimo vertice Nato del 25 giugno per un ulteriore incremento, misurato in percentuale sul Pil, quindi in direzione del riarmo. Un vertice per anticipare il quale si terrà a Roma la manifestazione “Stop Rearm Europe - No guerra, riarmo, genocidio, autoritarismo” (partenza alle 14 da Porta San Paolo) organizzata da numerose associazioni, tra le quali Sbilanciamoci, Rete Italiana Pace e Disarmo, Fondazione Perugia Assisi, Greenpeace Italia e Arci.
Uno spreco di risorse enorme ed eticamente insostenibile, dicono le associazioni che si battono per la riduzione delle spese militari e contro la guerra, soprattutto a fronte del certificato aumento della povertà assoluta e relativa. Secondo l’Istat, infatti, gli italiani a rischio di povertà assoluta costituiscono il 25% della popolazione e oltre 4,5 milioni di persone non si curano perché non possono più permetterselo.
Il denaro speso per strumenti di guerra e non solo potrebbero invece essere dirottati su sanità, scuola, trasporti pubblici, ad esempio, ai quali i fondi destinati dalle leggi di bilancio che si sono succedute negli anni non bastano per coprire il fabbisogno degli italiani. Anche sul fronte dell’occupazione le spese in armi non si mostrano così conveniente: un rapporto di Etica Sgr indica che un miliardo di euro speso in armamenti genera circa 3.000 posti di lavoro, mentre un miliardo speso in sanità ne genera circa 12.000.
Cambiare la lista della spesa
Come sostiene la Campagna Sbilanciamoci! “occorre passare dall’economia di guerra all’economia di pace e dei diritti. All’Italia non servono armi ma scuole, reti di mobilità collettiva, servizi per gli anziani e i bambini, presidi sanitari. Tagliando l’acquisto di nuovi strumenti di armi si guadagnano 3 miliardi e 700 milioni, e tagliando i programmi militari finanziati dal ministero delle Imprese e del Made in Italy rimarrebbero nelle casse dello Stato altri 1.750 milioni di euro”.
Nel dettaglio, secondo i conti effettuati da Sbilanciamoci!, con il denaro speso per un cacciabombardiere F35 (130milioni) si potrebbero costruire:
- 6500 residenze universitarie;
- un carro armato Ariete (90 milioni) si potrebbero acquistare 597 apparecchiature Tac;
- un cingolato leggero (20milioni) acquistare 224 ambulanze;
- un sottomarino U212 (1,2miliardi) si potrebbero assumere 8mila infermieri (5 anni di stipendio);
- un cacciamine (120milioni) fornire assistenza domiciliare a 8.571 anziani non autosufficienti;
- un carro armato Leopard (40milioni) acquistare 1409 ventilatori polmonari x terapia intensiva.
Si chiama pacifismo, non populismo
A chi voglia bollare di populismo le suddette posizioni, vogliamo raccontare, anzi, chi scrive vuole raccontare che conobbe un parlamentare, politico di lungo corso, economista che assunse anche cariche governative, che per un infortunio fini nel Pronto soccorso di un ospedale pubblico romano e rimase scioccato (espressione sua) nel vedere tanta umanità dolente: persone anziane costrette per ore e ore ad attendere una visita, uomini e donne di ogni età in barella lungo i corridoi, al freddo e doloranti, in attesa di sapere quale fosse il loro destino.
Benché persona attenta alle questioni sociali, non di certo un populista, non aveva mai toccato con mano la sanità pubblica e i riflessi della carenza di personale e mezzi sui cittadini, perché, come tutti i suoi, poteva usufruire del privilegio di accedere a strutture private, dove a pagamento si ha assistenza immediata.
Populista dunque è chi moltiplica le spese militari spacciandole per tutela dei cittadini senza avere contezza delle reali condizioni, la difficile quotidianità, di chi invece dovrebbe proteggere e tutelare.