È sostituto procuratore generale presso la Cassazione, ma la carriera di Antonio Balsamo è troppo lunga per essere raccontata in poche righe. Ha alternato – a volte svolgendoli in contemporanea – incarichi in organismi internazionali come all’Alta Corte dell’Aja o essere stato consigliere giuridico della Rappresentanza permanente d’Italia presso le Nazioni Unite a Vienna.

In Italia, tra le altre cose, si è occupato dei processi per le stragi di Capaci e via D’Amelio come presidente della Corte di assise di Caltanissetta e, prima ancora, come giudice del Tribunale di Palermo, ha trattato il dibattimento nei confronti del senatore Giulio Andreotti, il processo a carico dei vertici di “Cosa nostra” per l’omicidio del cronista giudiziario del Giornale di Sicilia Mario Francese, il processo “Grande mandamento” relativo alla latitanza di Bernardo Provenzano. Infine, come presidente del Tribunale di Palermo, insieme alla Cgil e ad altre associazioni del terzo settore, ha messo in piedi percorsi di inserimento al lavoro per i detenuti in fine pena.

C’è un filo rosso che ha tenuto insieme il suo lavoro nei diversi incarichi: la tutela dei diritti di tutti e tutte, a partire dai più fragili. E così, l’imperativo categorico che ancora lo muove è aver cura della Costituzione e della democrazia.

Antonio Balsamo
 

Recentemente ha sottolineato che la democrazia conquistata non è per sempre. Ci spiega?

Sarebbe bello se ogni conquista, a partire dalla democrazia, fosse irreversibile, ma questo non appartiene alla storia umana. Occorre averne consapevolezza, e di conseguenza avere cura della democrazia.

Allora partiamo da qui. La democrazia non è una conquista per sempre, così come non lo sono i diritti dei lavoratori o i diritti delle donne: c’entra questo con le riforme, costituzionali e non, che questo governo afferma?

I diritti di tutti dipendono anche dalla capacità di ciascuno di costruire quello che padre Pino Puglisi chiamava “il diritto dei più poveri”. Questa attenzione ai princìpi di uguaglianza, di tutela effettiva dei diritti di tutti, a partire da quelli delle persone più fragili, dipende moltissimo dalla cultura e dalla visione del proprio ruolo da parte del giudice e della magistratura in generale.

L'attenzione e la tutela dei diritti di tutti spesso impatta con decisioni politiche che vanno in altra direzione. Poi, per fortuna, come nel caso della sentenza della Corte costituzionale, esiste “un giudice” che rimette le cose a posto, affermando che il tetto di sei mesi per i licenziamenti illegittimi è incostituzionale.

Con quella sentenza si è ricostituito un senso di equità, per garantire la dignità del lavoratore, nel rispetto del principio di eguaglianza: è evidente che per il lavoratore il danno derivante dal licenziamento, tanto più se ingiustificato, ha una portata economica notevole. Quel tetto era veramente sproporzionato.

Quanto detto fin qui ci dice di una stagione, quella che stiamo vivendo, in cui conquiste che pensavamo essere per sempre vengono messe in discussione con leggi ordinarie, ma anche con norme costituzionali come la cosiddetta riforma della giustizia, la riforma Nordio.

La riforma Nordio riguarda essenzialmente tre aspetti. Uno è quello della separazione delle carriere tra magistratura giudicante e magistratura requirente, che diventerebbe una separazione assoluta con la creazione di due Consigli superiori della magistratura. Il secondo aspetto riguarda il fatto che i componenti di questi Consigli superiori sarebbero scelti a sorte, non verrebbero quindi più eletti. Il terzo riguarda il giudizio disciplinare che verrebbe affidato a un’alta corte composta prevalentemente da magistrati che vengono da funzioni presso la Cassazione. L’aspetto che suscita le maggiori preoccupazioni è proprio quello della totale separazione tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti. Preoccupa molto anche sul piano della tutela dei diritti.

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In che senso?

Il magistrato del pubblico ministero attualmente ha una formazione comune al magistrato giudicante. Questa formazione, negli ultimi anni soprattutto, è stata fondata su un forte collegamento tra standard internazionali e strumenti nazionali di tutela dei diritti fondamentali. È una cultura che si fonda sulla garanzia piena dei diritti: temo venga posta fortemente a rischio proprio dalla separazione assoluta tra il pubblico ministero e il giudice, perché quello che si prospetta è un sistema che pone il pubblico ministero in una condizione completamente autoreferenziale, con i due Csm, corpi separati in potenziale conflitto fra di loro anche nel modo di intendere la giustizia. Ecco, ovviamente si parla di una possibile eterogenesi dei fini.

Cosa significa?

Che si crei un pubblico ministero che sostanzialmente non ha più quella cultura della giurisdizione e delle garanzie che veniva dalla comune appartenenza allo stesso ordine giudiziario, né altre forme di controllo assicurate da un Csm composto prevalentemente da giudici. Temo, ma lo temiamo tutti in verità, che si crei un pubblico ministero che tenda esclusivamente, o almeno prevalentemente, a vincere il processo. Altra cosa, com’è oggi, è avere un pubblico ministero che ha la stessa cultura del giudice.

Qual è, dunque, la figura attuale?

È quella figura, di cui parlavano già Carnelutti e Calamandrei, di parte imparziale, che dirige le indagini e partecipa al processo ma sempre con un’ottica di imparzialità, sentendosi chiamato a garantire i diritti di tutti. Quindi, anche nel corso delle indagini, interviene evitando che ci possano essere sacrifici sproporzionati dei diritti degli stessi indagati e garantendo la piena tutela delle vittime. Ecco, questo modello di pubblico ministero si fonda su una forte comunanza di vedute culturali con il giudice. Personalmente sono dell'idea che sarebbe importante estendere questa cultura comune, in maniera piena, al mondo dell’avvocatura. La prospettiva da perseguire sarebbe quella di dare vita a una cultura della giurisdizione che coinvolga avvocato, giudice e pubblico ministero.

Questa riforma può portare a un indebolimento della democrazia?

Quello che temiamo è che proprio i diritti e le libertà siano in pericolo se il pubblico ministero muterà completamente il proprio ruolo, se sarà proiettato a vincere e non ad accertare la verità nel processo con il rispetto pieno e convinto delle garanzie individuali di ciascuno. Per di più, nel momento in cui il pubblico ministero diventerà potentissimo, svincolato dall’ordine giudiziario nel suo complesso, e privo di un intenso raccordo culturale con la magistratura giudicante, c’è il rischio che divenga inevitabile sottoporre il pubblico ministero al potere esecutivo. La democrazia si fonda sulla separazione dei poteri, non sulla concentrazione del potere. Nella riforma costituzionale non è prevista una sottoposizione del pubblico ministero al governo, ma c’è il concreto pericolo che un simile sviluppo divenga l’unico rimedio possibile per impedire la deriva dopo la completa separazione delle carriere.

Due Csm e un’alta corte disciplinare: che ne pensa?

C’è una seria esigenza di cambiamento di alcuni aspetti nel modo di funzionare del nostro sistema di autogoverno e di tutto il sistema-giustizia, ma temo che i problemi che già ci sono verrebbero accentuati dalla presenza di due Csm, più un terzo organo. Se si vuole affrontare sul serio il tema del miglioramento della giustizia, si deve pensare a riforme molto più realistiche, che partono da un cambio di marcia per quanto riguarda gli investimenti sull’organizzazione giudiziaria.

Un esempio?

Dalla scorsa legislatura abbiamo una novità importante: l’Ufficio per il processo, che merita assolutamente una stabilizzazione e un perfezionamento. L’Ufficio per il processo è frutto di una visione autenticamente europea della giustizia, in cui c’è un corpo di assistenti del giudice che aiutano a rendere più efficiente tutta la giurisdizione e a rendere più veloce la tutela dei diritti, a cominciare da quelli delle persone più deboli. Ma questi obiettivi non hanno alcun collegamento con la riforma costituzionale.

Ma tutto questo, con i diritti dei cittadini a una giustizia rapida ed efficiente, cosa ha a che vedere?

Nulla, la velocità della risposta giudiziaria non diminuirà neanche di un giorno. Anzi, c’è il rischio che questa divaricazione che purtroppo si creerà tra il modo di pensare del pubblico ministero e il modo di pensare del giudice porti a una moltiplicazione degli errori giudiziari. La questione dell’errore giudiziario è serissima, e non si risolve facendo sì che chi svolge le indagini abbia un modo di pensare diverso rispetto a quello del giudice. Si può riuscire ad affrontarla adeguatamente valorizzando quella visione di autentica imparzialità, di massima apertura mentale e di garanzia completa dei diritti che deve guidare tutta l’attività di chi dirige le indagini.

Quali sono, dunque, i rischi?

Questa visione temiamo che sia posta fortemente a rischio da un sistema in cui il pubblico ministero è completamente separato dal giudice sin dall’inizio del suo percorso professionale. Se noi andiamo a vedere le figure di pubblico ministero che hanno dato un'impronta alla nostra storia giudiziaria, e non solo in Italia, penso ad esempio a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino, scopriamo che sono figure di pubblico ministero che si sono formate come giudici, prima hanno fatto il giudice e poi hanno fatto il pubblico ministero. Non a caso erano persone fortissimamente impegnate nella ricerca della verità, senza alcun pregiudizio, capaci di rispettare i diritti di tutti. Se questa figura di pubblico ministero, che è stata vincente per il nostro Paese, diventasse assolutamente impossibile nel prossimo futuro, sarebbe una perdita grandissima non solo per la giustizia, ma per la democrazia.

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