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Scrivo contro i miei interessi, essendo uno tra i docenti con profilo adeguato per far parte della categoria degli “esperti”, gli insegnanti che potrebbero usufruire degli oltre 5.500 euro annui di aumento, sotto forma di “assegno annuale ad personam”. Tecnicamente si tratta di una revisione delle norme sulla formazione continua dei docenti introdotta con la riforma legata al Pnrr, dove si indica che questi professori non potranno essere più di ottomila (dunque uno per ogni istituto pubblico), dovranno essere di ruolo e attivi da almeno tre anni nella stessa scuola, oltre ad aver conseguito “una valutazione positiva nel superamento di tre percorsi formativi consecutivi e non sovrapponibili”.
Alla reazione dei sindacati, che unitariamente hanno sottolineato come il governo trovi le risorse per finanziare questa figura, mentre i soldi non ci sono quando si discute di rinnovo del contratto nazionale, si aggiungono quelle dei docenti stessi, anche di chi, per l’appunto, da questo provvedimento potrebbe trarre un vantaggio economico non indifferente, dato che un aumento mensile di circa 400 euro equivarrebbe più o meno a un quarto del salario attualmente percepito.
Un salario, sempre bene ricordarlo, tra i più bassi in Europa, e sempre meno in linea con il costo della vita con il quale tutti siamo costretti a fare i conti, in particolare nell’ultimo anno. Ma la contrarietà al provvedimento deriva soprattutto dall’idea malsana alla base dello stesso, vale a dire un meccanismo selettivo che scatenerebbe ancora una volta, ed è proprio il caso di dire, una guerra tra poveri. Il che non vuol dire essere contrari a un sistema di meritocrazia all’interno del corpo docente: ma qui non si tratta di riconoscere e valutare chi merita, quanto creare disparità che potrebbero comportare conseguenze di non poco conto all’interno della vita scolastica quotidiana.
Provate a immaginare cosa potrebbe significare arrivare a scuola, felicemente premiato (non ho ancora ben capito da chi, oltre i requisiti richiesti: il dirigente scolastico? una commissione di colleghi?), con il mio bell’assegno intascato, ed entrare in sala professori la mattina. Non credo si respirerebbe una bella atmosfera. Anche perché, e qui secondo me risiede il cuore del problema, se un docente “esperto” può esser ritenuto tale, i risultati da lui ottenuti nel corso degli anni, il curriculum costruito nel tempo, sono non soltanto il frutto del suo lavoro, della sua volontà e della sua passione, ma anche l’esito di una collaborazione continua, di una didattica sviluppata collettivamente, in maniera interdisciplinare, attraverso proposte e progetti che di solito, se condotti con cieco individualismo, non portano da nessuna parte.
Ecco perché, prima di giungere a determinati provvedimenti, bisognerebbe preoccuparsi di altro. Bisognerebbe prima pensare agli insegnanti precari, ad esempio. Bisognerebbe capire come far funzionare i sistemi di reclutamento del personale docente, nel nome della continuità didattica, evitando il caos che sovrano regna ogni anno scolastico, almeno fino a Natale. Bisognerebbe retribuire i supplenti nei tempi e modi dovuti e non farli attendere per mesi, visto che tra l’altro sono tra i più giovani e dovrebbero avere l’opportunità e il diritto di costruire il proprio futuro. In sintesi, come espresso da tutte le organizzazioni sindacali del comparto scuola, bisognerebbe occuparsi del contratto collettivo nazionale, per dare qualcosa in più a tutti, visto che non succede da decenni, tralasciando le poche briciole ogni tanto elargite qui e là.
Un’ultima annotazione, che descrive il quadro forse meglio di qualsiasi ulteriore commento: seppur prevista a partire dall’anno scolastico 2023-2024, l’assegno alla nuova figura di “docente esperto” non arriverebbe prima del 2032, esattamente tra dieci anni.
Nel frattempo, chissà che fine avrà fatto la scuola pubblica italiana.