Dopo una Pasqua che mai avremmo pensato di vivere in questo modo, si ricomincia a organizzare il lavoro da casa, ripartendo dalla didattica a distanza, vera protagonista della scuola in questo tempo sospeso dal Covid-19. ​Le settimane scorse ci hanno insegnato molte cose, e per certi versi aiutato a conoscere ancor meglio i nostri studenti, e le rispettive famiglie. Per paradosso, quel famoso “patto educativo” di cui tanto si discute da anni, ovvero una sinergia virtuosa da ricercare nel rapporto tra insegnanti, genitori e alunni, così difficile da realizzare a scuole aperte, in alcuni casi sembra prendere forma proprio ora, attraverso un fitto scambio di telefonate, messaggi di posta elettronica o in altre modalità per coordinare orari di lezione, compiti da assegnare, restituzioni scritte, oltre che scambiare qualche parola di reciproco conforto, per sostenerci a vicenda in attesa di un ritorno alla tanto evocata “normalità”. Una normalità che, con il passar dei giorni, sembra di capire non significherà tornare alla scuola che siamo stati costretti ad abbandonare.

La comunicazione della ministra Lucia Azzolina, ribadita in queste ore dal Consiglio superiore della sanità, del rientro in classe soltanto a settembre, impone da subito questioni di non poco conto. Tra queste, la più immediata riguarda come portare avanti la pratica della didattica a distanza sino a giugno. La proposta di una riapertura anticipata al 1° settembre, con due settimane a disposizione per un gran ripasso generale degli argomenti affrontati dal mese di marzo in poi, al netto di una rimodulazione inevitabile della programmazione iniziale, non interviene sull’esigenza del momento, vale a dire come riuscire a mantenere costante la partecipazione e l’impegno di studenti e studentesse, esami a parte, ancora non ben definiti nelle modalità tra scritto e orale. Anche perché, inutile nasconderlo, la certezza di essere tutti promossi (con il 6 erroneamente definito “politico”, o con alcune insufficienze in pagella poco cambia) e di tornare in classe solo dopo l’estate, inevitabilmente porterà a un perdita di motivazioni e a un calo di concentrazione, atteggiamento difficile da biasimare date le condizioni logistiche e psicologiche in cui i nostri alunni sono costretti a vivere, e a studiare.

La lezione in streaming è per loro divenuta un appuntamento da inserire in giornate sempre più pesanti, un modo per vedersi tra loro e alleggerire il tedio quotidiano; ma se i ragazzi vogliono vedersi attraverso uno schermo per fare due chiacchiere, per farlo non hanno bisogno della nostra piattaforma didattica. Con il passar del tempo la videolezione, anche per un probabile e graduale allentamento delle restrizioni, rischierà di essere sempre meno frequentata. Vero che i docenti stiano annotando le assenze (più che altro le presenze), e che il ministero abbia dato indicazioni in merito a una valutazione che tenga conto della partecipazione scolastica in base anche ai compiti eseguiti e le attività da seguire; altrettanto vero, però, che tutto questo, allo stato dei fatti, perda il suo valore effettivo. Ci si dovrebbe appellare a un senso di responsabilità e di consapevolezza dell’importanza del proprio percorso di formazione, una richiesta che la realtà cui tutti siamo chiamati a far fronte, soprattutto i minori, non favorisce di certo.

A questo si deve aggiungere una riflessione a latere, rivolta alla scuola primaria e ancor più quella dell’infanzia, dove i problemi sono di ben altro ordine e tipo, coinvolgendo ancora una volta anche le famiglie, con genitori soffocati dallo smart working (per chi ha la fortuna di continuare a lavorare), o chiamati a riprendere con le imminenti riaperture la solita routine, senza sapere come poter gestire i propri figli in casa da domani a settembre. Oltre questo, bisognerebbe iniziare a prendersi cura dei più piccoli anche da un punto di vista strettamente pedagogico e psicologico, domandandosi quanto questa improvvisa interruzione dei loro orari e delle loro abitudini (andare a scuola, affidarsi alle maestre, incontrare e giocare con i propri coetanei, passare del tempo con i nonni e altri parenti) possa incidere sulla crescita fisica e mentale dei bambini, magari cercando di dare qualche risposta concreta.

Tornando ai più grandi, alla secondaria di primo e secondo grado, il compito di noi professori, avvolti da questo limbo fosco e complesso, è per l’appunto quello di tenere alto il morale e l’attenzione, e non sarà operazione semplice. La ministra Azzolina, bontà sua, ci ha spinti anzi “incitati” a dare il massimo, a dare ancora di più. Possiamo garantire, almeno per la grande maggioranza, che è quello che stiamo facendo, o tentando di fare, ogni giorno: la didattica a distanza implica degli sforzi ulteriori da quella “tradizionale”, in termini di organizzazione, preparazione, aggiornamento, creatività, burocrazia, tempo dedicato. Altro che rimanere a casa e prendere lo stipendio, come si è provato a insinuare da qualche parte. Lo stipendio si prende, è vero, e siamo consapevoli di essere una categoria fortunata, di questi tempi. Ma sappiamo anche di guadagnarlo, anche da casa.

Resta da capire come ci si muoverà al momento del rientro, dovendo ridurre il rischio sanitario per oltre otto milioni di alunni, e più di un milione di insegnanti. Verosimilmente, sarà una scuola che ruoterà attorno al concetto di flessibilità, alternandoci in turni mattutini e pomeridiani, negli orari di entrata e di uscita, nella didattica in classe e da remoto, nel distribuire nuovi ruoli e diverse responsabilità, e traendo spunto dalla situazione dentro la quale ci troviamo per cercare di costruire un diverso modello di istruzione, che di tale esperienza non tenga soltanto conto delle possibilità fornite dalla didattica a distanza, e più in generale dagli strumenti offerti dal sistema tecnologico, ma che sappia recuperare e sviluppare ulteriormente la sua forte componente umana, unica e insostituibile prerogativa di ogni comunità scolastica, nel nome di un finalmente realizzato patto educativo tra tutti noi.

Ci vorrà tempo, dedizione, e un importante investimento economico, destinato in particolare a potenziare l’edilizia scolastica e i lavoratori del settore, dai docenti al personale Ata. Le ultime cifre parlano di tre miliardi di euro: pensando ai soldi tolti negli ultimi vent’anni alla scuola pubblica si tratterebbe soltanto di un tenue risarcimento, che speso bene potrebbe consentire di ripartire con il piede giusto.