23 maggio 1992. Un sabato pomeriggio di primavera squarciato da mezza tonnellata di tritolo. Il sole è ancora alto sul mare di Isola delle Femmine quando un boato tramuta quello splendore alle porte di Palermo in uno scenario di guerra. Dalle immagini si riconosce solo lo svincolo dell'autostrada di Capaci. In un cratere, sotto le macerie, intrappolati nelle loro auto, i corpi del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo, degli agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. 

Perché Falcone? È la rabbiosa reazione di Cosa nostra per il “Maxiprocesso” che si sta celebrando in un’aula del carcere dell’Ucciardone di Palermo. Da poche settimane il primo grado si è concluso con pesanti condanne: 19 ergastoli e pene detentive per migliaia di anni di reclusione. Un colpo durissimo all’organizzazione criminale. A istruire il procedimento proprio Giovanni Falcone con Paolo Borsellino e un gruppo di fidati magistrati.

La strategia stragista

Cosa nostra, alle corde, decide di dichiarare guerra allo Stato. La strategia è eversiva e stragista.  Al tritolo di Capaci segue quello che spazza via le vite di Paolo Borsellino e della sua scorta in via D’Amelio. Poi le bombe di Roma del 1993. Nel maggio dello stesso anno una deflagrazione all'Accademia dei Georgofili di Firenze uccide altri cinque innocenti. Il 15 settembre viene freddato sul sagrato della propria chiesa don Pino Puglisi, reo di trasmettere i valori della giustizia e della legalità ai giovani del quartiere Brancaccio di Palermo.

Sono alcuni degli uomini simbolo rispetto alle migliaia di vittime innocenti per mano delle mafie. Oggi i mandanti di quelle stragi sono morti, gli esecutori sono stati assicurati alla giustizia ma la battaglia è tutt'altro che finita. Come ci ha dimostrato la trentennale latitanza di Matteo Messina Denaro consumata a pochi chilometri da casa, la mafia continua a mimetizzarsi, a trasformarsi. Ramificata dentro e fuori dalla Sicilia, continua ad allungare i propri tentacoli e a radicarsi ovunque ci siano interessi economici e finanziari. Sempre protetta da politici e funzionari infedeli.

L’intreccio mafia-politica

Secondo don Luigi Ciotti: “Il fenomeno mafioso sarebbe già debellato se non ci fosse il coinvolgimento tra mafia e politica, tra quei poteri economici finanziari inquinati e la massoneria”. Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia dal 2013 al 2018, sottolinea come manchi una sede per condannare il trasformismo, il clientelismo, l'incompetenza, la propaganda, le leggi che ledono i diritti delle persone. "È necessaria - ha detto - una condanna politica per esigere che la selezione della classe dirigente venga valutata per i propri comportamenti".

Franco La Torre ricorda le parole del padre, Pio La Torre, che negli anni Ottanta descriveva il sistema di potere politico mafioso come il principale ostacolo all'affermazione dei diritti democratici: il diritto al lavoro e a fare impresa, la libertà di voto e di espressione, la salute, l'ambiente, la sicurezza.

L’arma della democrazia

La mafia è un male le cui metastasi si diffondono in tutto il tessuto sociale con effetti sul nostro quotidiano: sul posto di lavoro, in un ospedale, nella deturpazione di quello che ci circonda. Nelle nostre mani rimane l'arma della democrazia. Esercitare il proprio voto, sul proprio posto di lavoro come nelle istituzioni - è un argine alla cultura della sopraffazione e della violenza. 

Perché, come ricorda don Ciotti: “La mafia non gode solo di un sostegno attivo, gode anche di un sostegno passivo. In tanti la rafforzano con il solo fatto di non schierarsi”.