All’inizio c’era la paura. Barconi, orde, confini da sigillare come vasetti di sottaceti scaduti. Poi, sorpresa: le imprese bussano a Palazzo e dicono “ci servono braccia, mica cervelli”. Et voilà, il prodigio nazionale: mezzo milione di lavoratori stranieri in tre anni. La destra, che fino a ieri vedeva un clandestino anche nell’omino Michelin, improvvisa il decreto flussi. Non è accoglienza, è import-export umano col bollo dello Stato.

Il patriottismo, qui, è come la porchetta alle sagre: si serve caldo ma è solo contorno. In piazza si urla all’invasione, nei ministeri si stampano visti come scontrini al supermercato. Silenziosi, operosi, possibilmente invisibili: i nuovi arrivati devono funzionare come Roomba. Spolverano, raccolgono, poi tornano nel nulla. Niente domande, niente pretese. Solo flussi. E grati, mi raccomando.

Sulla carta sono in regola. Peccato che la carta sia quella del Monopoli. Tra moduli indecifrabili, tempi biblici e regolamenti che sembrano escape room, ottenere un permesso è come vincere al Gratta e Vinci con la moneta sbagliata. Il click day? Una maratona digitale con trappole, crash e bestemmie silenziate.

La vera genialità è il sistema. Le aziende chiedono, lo Stato consegna, ma il lavoratore resta incastrato in una giostra di precarietà e truffe legalizzate. Gli intermediari festeggiano, i caporali fanno affari, e l’unico a non guadagnarci è chi lavora davvero. Se va bene, un contratto grigio. Se va male, un “torna domani”.

Questa è l’Italia del flusso telecomandato: seleziona braccia, respinge persone. A parole siamo assediati. Nei fatti, si aprono serre e cantieri. Una mano sulla ruspa, l’altra sul registro presenze. Ma guai a chiamarlo sfruttamento, è “ottimizzazione dei flussi”. Basta solo non guardarli negli occhi.