La cucina italiana è patrimonio immateriale dell’Unesco. Un risultato storico, arrivato dopo un processo promosso da una blasonata rivista enogastronomica e sostenuto da grandi chef italiani e associazioni. È il riconoscimento globale di una cultura alimentare come bene fondamentale: pratica quotidiana “tra sostenibilità e diversità bioculturale”, affonda le sue radici “in ricette anti-spreco - si legge nelle motivazioni della decisione - e nella trasmissione di sapori, competenze e ricordi attraverso le generazioni”.

Orgoglio nazionale

La cucina italiana “è un mix culturale e sociale di tradizioni culinarie, elemento associato all'uso di materie prime e tecniche di preparazione artigianale. È un'attività comunitaria che enfatizza l'intimità con il cibo, il rispetto per gli ingredienti e i momenti condivisi a tavola”. È creatività, inclusività, sostenibilità ambientale, creazione di comunità e contribuisce a creare un’identità socio-culturale.

Insomma, ce n’è in abbondanza per alimentare l’orgoglio nazionale. E infatti il riconoscimento è stato salutato con toni trionfalistici da chi, come la presidente del consiglio Meloni, fa dell’identità italiana, della sovranità alimentare e non solo, motivo di fierezza e strumento di propaganda.

Un’italianità diversa

“Anche se non è certo merito di questo esecutivo – dichiara Giovanni Mininni, segretario generale della Flai Cgil –. Il comitato promotore della candidatura si è formato alcuni anni fa ed è composto da diverse esperienze, la rivista Cucina italiana insieme ad altre organizzazioni. Ma la presidente ha pensato bene di utilizzare il riconoscimento per la narrazione di un Paese, anzi una ‘nazione’, che grazie alla sua forza e ai suoi valori identitari produce belle cose. In realtà il nostro cibo e la nostra cucina raccontano un’identità fatta da tanti territori, che cambia da provincia a provincia, che è riuscita a raggiungere livelli elevati sapendo mantenere insieme le storie dei luoghi dai quali origina. Molto spesso sono cibi poveri, buoni e di qualità che si sono affermati negli anni. Si tratta di un’italianità diversa da quella raccontata da Meloni e dal ministro dell’Agricoltura”.

Certamente un risultato positivo per il nostro Paese, che a maggior ragione deve mettere al centro i diritti di chi produce. “Ci dobbiamo preoccupare di come viene prodotto e venduto questo cibo – riprende Mininni –. È importante che non ci sia sfruttamento lungo la filiera del lavoro, dove il caporalato è invece un fenomeno radicato, e che venga salvaguardata la qualità”.

Quale made in Italy?

C’è anche un’altra questione, ed è legata alle materie prime. “Al netto del fatto che la cucina italiana è la risultanza di molteplici influenze, che vanno dall’Africa ai Paesi nordici, oggi se non proteggi il mercato interno rischi di avere un tipico che tipico non è, perché il 50 per cento della materia prima che utilizziamo è importata – afferma Monica Di Disto, giornalista e vicepresidente dell'associazione Fairwatch -. Da un lato quindi la cucina italiana è quanto di meno ‘nazionalista’ esista sulla faccia della Terra, dall’altro il made in Italy è sempre meno made in Italy. Senza contare che inguaia la bilancia dei pagamenti”.

I rubinetti delle importazioni

Il punto è anche questo: mentre aumentano le esportazioni, la materia prima di origine italiana non è sufficiente a far fronte alla richiesta. Così i produttori fanno i salti mortali per importarla.

“I grandi gruppi industriali spingono perché il mercato nostrano apra i rubinetti delle importazione attraverso gli accordi internazionali – prosegue Di Sisto -: quello di libero scambio con il Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay, Bolivia e Paesi della Comunità andina, ndr) per importare carne bovina e pollo dal Brasile, quello con il Canada per il grano. In questo modo entrano alimenti che molto spesso non sono sicuri, perché in quei Paesi non vengono sottoposti agli stessi controlli e disciplinari stringenti previsti dall’Europa. Senza contare che le materie prime possono essere importate a prezzi stracciati intaccando un mercato in cui la Ue è autosufficiente, come il pollame. Questo crea un problema alla bilancia dei pagamenti e ai nostri produttori”.

Accordi e concorrenza

Il trattato con il Canada ha facilitato l’ingresso del grano canadese, che ha fatto concorrenza al grano siciliano. Quello con la Thailandia ha tolto ossigeno al riso piemontese. I bilaterali e i partenariati con il Marocco e gli altri Paesi della sponda sud del Mediterraneo hanno fatto dumping ai prodotti orticoli come i pomodori, lo stesso per l’olio dalla Tunisia, il concentrato di pomodoro dalla Cina ha praticamente sostituito quello italiano. Solo per fare qualche esempio.

Sovranismi a fasi alterne

“Questo governo è sovranista a fasi alterne - conclude Di Sisto -: dice di voler proteggere i nostri produttori ma poi non si oppone a niente né in Europa né sulle scelte con l’extra Ue. La sovranità alimentare è solo una parola aggiunta al nome del ministero, che invece non dà alcun sostegno alle nostre produzioni. Il riconoscimento dell’Unesco è una grande cosa, il cibo è molto importante ed è positivo che sia un pezzo del nostro pil. A renderlo unico sono diversi fattori, materie prime prodotte in un certo modo, con un determinato contenuto di salute, in quei territori, attraverso il lavoro dignitoso, con il rispetto per gli animali e per la qualità. Il punto è che il cibo è anche un diritto e se la celebrazione del riconoscimento non si concretizza con i numeri e la sostanza, diventa una finzione”.

Quale diritto al cibo?

Il diritto al cibo buono e di qualità, appunto, quello a cui molte famiglie non riescono più ad accedere, complici i salari bassi e il calo del potere d’acquisto.

“Oggi in Italia le famiglie di alcune classi sociali non hanno la possibilità di accedere al cibo buono e salutare e fanno rinunce, come con le cure mediche – afferma il segretario Flai Mininni -. I consumi stanno vivendo un periodo di leggera contrazione mentre aumentano le persone che scelgono di orientarsi verso un cibo di qualità inferiore. La dimostrazione? La crescita negli ultimi dieci mesi di quest’anno del numero dei discount, che sono arrivati anche nei centro città. Si amplia quindi la fascia sociale di quanti risparmiano sulla spesa, sceglie cibo meno attento alla qualità del prodotto. Questo ci racconta quanto il nostro Paese sia entrato in una sofferenza latente ma strisciante”.