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Nata in una famiglia di agricoltori, dopo l’armistizio di Cassibile, Ines partecipa attivamente alla Resistenza emiliana rendendo la sua casa un punto di riferimento per i partigiani. Nel 1944 entra a far parte del Comando unificato militare dell’Emilia-Romagna portando a termine, sin quasi alla Liberazione, numerosi e delicati incarichi. Durante una missione, a poche settimane dalla Liberazione, il 23 febbraio 1945 viene catturata dai nazifascisti che, dopo averla barbaramente torturata senza ottenere alcuna confessione, la fucilano il 28 marzo per poi gettare il suo corpo nel Po.
L’11 settembre 1968 con decreto presidenziale le viene concessa la medaglia d’oro con la seguente motivazione: “Spinta da un ardente amor di Patria, entrava all'armistizio nelle formazioni partigiane operanti nella sua zona, subito distinguendosi per elevato spirito e intelligente iniziativa. Assunti i compiti di staffetta, portava a termine le delicate missioni affidatele incurante dei rischi e pericoli cui andava incontro e della assidua sorveglianza del nemico. Scoperta, arrestata e barbaramente torturata, preferiva il supremo sacrificio anziché tradire i suoi compagni di lotta”.
Stando ad alcuni calcoli fatti dall’Anpi, furono 35 mila le partigiane combattenti, 20 mila le patriote con funzioni di supporto, 70 mila le donne appartenenti ai Gruppi di difesa per la conquista dei diritti delle donne, 5 mila circa quelle arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti, più o meno 3 mila le deportate in Germania. Nei cortei del 1945, però, di donne se ne vedono poche.
La Resistenza delle donne non è stata uguale a quella degli uomini e per molto tempo è rimasta avvolta nel silenzio. Le foto delle partigiane con il fucile oggi sembrano scontate, ma per anni non hanno circolato. “In alcuni casi, tra cui Torino - ricorda la storica Paola Zappaterra - a molte donne che avevano realmente combattuto nelle brigate partigiane in montagna venne chiesto di non sfilare. L’eco della polemica finì anche su giornali come l’Unità o Noi donne e durò anche durante i lavori della Costituente dove furono elette solo ventuno deputate. Certo, si arrivò al diritto di voto anche per le donne, ma il problema fu talmente sentito che per rintuzzare molte ritrosie di deputati maschi si usò proprio la partecipazione alle battaglie come conferma per partecipare al voto”.
Scrivono in proposito nell’introduzione al volume La Resistenza taciuta le due autrici Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina: “Dopo la Liberazione la maggior parte degli uomini considerò naturale rinchiudere nuovamente in casa le donne. Il 6 maggio 1945 Tersilla Fenoglio (Trottolina) non poté neppure partecipare alla grande sfilata delle forze della Resistenza a Torino. ‘Ma tu sei solo una donna!’, si sente rispondere da un compagno di lotta nell’estate del 1945 la partigiana Maria Rovano (Camilla), quando chiede spiegazioni dei gradi riconosciuti soltanto ad altri, mentre a Barge il vicario riceve il brevetto partigiano prima di lei. E Nelia Benissone (Vittoria)? Dopo aver organizzato assalti ai docks, addestrato gappisti e sappisti, lanciato molotov contro convogli in partenza per la Germania, disarmato militari fascisti per la strada, anche da sola, e dopo esser stata nel 1945 responsabile militare del suo settore, non sarà forse riconosciuta dalla Commissione regionale come ‘soldato semplice’?”.
I compiti ricoperti dalle donne durante la Resistenza sono molteplici e il loro ruolo si differenzia in base al periodo cronologico e al luogo in cui esse si trovano. Oltre che assistere i feriti e gli ammalati e contribuire alla raccolta di indumenti, cibo e medicinali, le donne partecipano portando il loro contributo alle riunioni politiche e organizzative e all’occasione sanno anche cimentarsi con le armi. Ricoprono tutti i ruoli: sono staffette, portaordini, infermiere, dottoresse, vivandiere, sarte; diffondono la stampa clandestina, trasportano cartucce ed esplosivi nella borsa della spesa, sono le animatrici degli scioperi nelle fabbriche, hanno cura dei morti.
Particolarmente prezioso è il loro compito di comunicazione: con astuzia riescono a passare i posti di blocco nemici raggiungendo la meta prefissata, prendendo contatto con i militari e informandoli dei nuovi movimenti.
Atti di sabotaggio, interruzione delle vie di comunicazione, aiuto ai partigiani, occupazione dei depositi alimentari tedeschi, approntamento di squadre di pronto soccorso sono solo alcuni dei compiti portati avanti con coraggio e tenacia dalle donne, cui bisogna aggiungere anche la loro attività di propaganda politica e di informazione. Il loro contributo non si limita alle azioni dirette: le donne partecipano ai grandi scioperi del Nord, di più, li organizzano, sostituiscono i loro uomini quando chiedono pane, vestiti, carbone, migliori condizioni che mitighino la durezza del conflitto armato. E muoiono in quelle manifestazioni.
È vero, non sono moltissime le combattenti vere e proprie, ma non mancano esempi in tal senso. Elisa Oliva, comandante in Valdossola, racconterà di aver risposto a chi le voleva togliere il comando: “Non sono venuta qua per cercarmi un innamorato. Io sono qua per combattere e ci rimango solo se mi date un’arma e mi mettete nel quadro di quelli che devono fare la guardia e le azioni. In più farò l'infermiera. Se siete d'accordo resto, se no me ne vado (...) Al primo combattimento ho dimostrato che l’arma non la tenevo solo per bellezza, ma per mirare e per colpire (…)”.
Scriveva Arrigo Boldrini: “Il censimento minuto ed esatto della somma dei contributi femminili alla Resistenza è impossibile proprio per il suo carattere di massa: nel corso di quei due anni vi fu la contadina che compiva chilometri a piedi in mezzo ai blocchi nazifascisti per recare i viveri a un gruppo di partigiani; vi fu la casalinga che preparava indumenti da avviare alle bande in montagna; vi fu l’operaia che nascondeva un pezzo della macchina affidatale in fabbrica affinché i tedeschi non avessero interesse a portarla via o la produzione per loro conto venisse interrotta. Moltissime di quelle donne non chiesero mai riconoscimenti e le cronache e la storia ne ignorano persino il nome. Cosicché la pure elevata cifra di 35 mila donne insignite del titolo di partigiane combattenti non rappresenta che il contingente di punta di un grandioso esercito di collaboratrici e sostenitrici della lotta”.
Dopo la Liberazione la qualifica di partigiano viene riconosciuta "a chi aveva portato le armi per almeno tre mesi e aveva compiuto almeno tre azioni di guerra o sabotaggio (o almeno aveva fatto tre mesi di carcere o sei mesi di lavoro nelle strutture logistiche)". Poste così le cose, era chiaro che un grande numero di donne resistenti veniva messo fuori gioco e che salvo casi eccezionali per loro si sarebbe potuto parlare solo di contributo dato alla Resistenza.
Sono solo diciannove le donne italiane decorate con la medaglia d’oro al valore militare tra cui quindici alla memoria. Le ricordiamo singolarmente, ringraziando attraverso di loro le tante che non hanno chiesto il riconoscimento e le tante altre alle quali esso fu ingiustamente negato: Irma Bandiera, Ines Bedeschi, Livia Bianchi, Gabriella degli Esposti in Reverberi, Cecilia Deganutti, Anna Maria Enriquez Agnoletti, Tina Lorenzoni, Ancilla Marighetto, Clorinda Menguzzato, Irma Marchiani, Norma Pratelli Parenti, Rita Rosani, Modesta Rossi Palletti, Virginia Tonelli, Iris Versari, Gina Borellini, Carla Capponi, Paola Del Din, Vera Vassalle.