Nel dicembre scorso il Pil italiano era ancora sotto i livelli pre-crisi (ossia il 2007) di 4,3 punti percentuali: in Germania era a +14,5, in Francia a +9,6, anche in Spagna (che ha agganciato il livello del 2007 nel 2016) era a +5,4. I numeri parlano chiaro, potremmo dire richiamando il sottotitolo dell’iniziativa che si svolge oggi (lunedì 11 marzo) a Roma, presso la sede della Cgil nazionale, alla presenza del segretario generale della confederazione Maurizio Landini, del segretario generale della Fisac Giuliano Calcagni e del docente di Economia e politica del lavoro dell’Università di Roma Tre Leonello Tronti. I numeri in questione sono stati elaborati dal nostro Isrf Lab, presieduto da Agostino Megale.

La crescita non c’è: la causa principale è la contrazione degli investimenti che arrivano a ridursi di un quarto, in un Paese atavicamente caratterizzato da un livello d’investimenti sotto la media europea. L’occupazione, sul piano quantitativo, è bassa. L’Istat certifica il ritorno ai livelli pre-crisi (23,2 milioni di occupati), ma questo dato, se letto da solo, falsa la realtà. In Italia mancano un miliardo e 300 milioni di ore lavorate, questo vuol dire che rispetto al 2007 mancano ancora un milione di posti di lavoro in termini di unità di lavoro. Neanche le previsioni fatte dal governo indicano un’inversione di tendenza e quindi una crescita occupazionale, mentre su altri aspetti sono sin troppo ottimistiche. Non c’è “cambiamento” (positivo) per il lavoro nelle stime del governo legastellato.

Sul piano qualitativo l’occupazione (oggi è possibile affermarlo sulla base dei dati) è messa anche peggio. Il Jobs Act ha fallito: riducendo le tutele non si aumentano i posti di lavoro, lo avevamo intuito e sostenuto nel 2014, oggi lo affermiamo sulla base delle risultanze numeriche. Anche qui i numeri parlano chiaro: nel biennio 2017/2018 l’80 per cento è stato assunto con contratti precari.

Volendo trarre delle prime considerazioni e avanzare delle proposte, assunto che il problema sia l’assenza di lavoro, occorre anzitutto che la missione istituzionale della Banca centrale europea, oltreché l’inflazione al 2 per cento, comprenda la piena occupazione come riconosciuto alla Federal reserve. Rispetto agli investimenti, è necessario un grande piano per la crescita economica e sociale che metta insieme investimenti pubblici e privati, continentali e nazionali.

Poi c’è la questione salariale, che ci accompagna dai primi anni novanta. I salari in Italia non crescono, la contrattazione ha difeso il salario dall’inflazione, ma la bassa crescita della produttività e un fisco eccessivamente oneroso sui redditi da lavoro e da pensione hanno reso il nostro Paese tra i più poveri tra le principali economie europee in termini salariali. I numeri? Stando alle rilevazioni Ocse, un lavoratore tedesco guadagna in media 910 dollari in più al mese rispetto a un lavoratore italiano, un francese quasi 600 in più, e anche gli spagnoli ormai hanno salari medi più alti dei nostri (+150 dollari al mese).

Anche su questo punto, volendo trarre indicazioni dai numeri, possiamo affermare che se il problema è un fisco che penalizza il lavoro serve un piano di grande redistribuzione che sposti il carico fiscale dal lavoro alle grandi ricchezze; se il problema è la produttività servono strumenti in grado di sostenerne la crescita, quindi, ancora, investimenti mirati, e in merito le banche dovrebbero svolgere un ruolo.

Le diseguaglianze sono crescenti e recessive. Il male della diseguaglianza attanaglia la nostra economia e la nostra società sempre più. Lo registriamo da molti punti di vista: tra manager e lavoratori, per cui si arriva all’eccesso in cui una persona (top manager) viene pagata quanto cento persone (lavoratori dipendenti). Vi sono diseguaglianze interne al mondo del lavoro: una donna guadagna mediamente il 20 per cento in meno rispetto a un uomo, un giovane il 21 per cento in meno rispetto alla media (che è di 1.464 euro al mese netti), un precario il 23 per cento in meno, uno straniero comunitario il 18 per cento in meno e uno extra Ue addirittura il 23 per cento in meno. Questo, tanto per fare un’esemplificazione, significa che un giovane lavoratore in dieci anni guadagna circa 40 mila euro in meno rispetto alla media.

E le banche italiane in tutto questo? Anche qui vediamo di far parlare alcuni numeri. Tra il 2011 e il 2018 riducono gli impieghi del 10 per cento, nel Mezzogiorno impiegano meno di quanto raccolgono. Prestano il denaro a prezzi più bassi del passato come conseguenza del Quantitative easing della Bce, ma comunque a prezzi più alti rispetto alle banche francesi: il tasso d’interesse medio applicato alle imprese in Italia è pari al 2,05 per cento, in Francia è 1,74. Si tratta solo di decimali, ma considerati nell’insieme costituiscono uno svantaggio competitivo per le nostre imprese molto consistente, un effetto spread nel privato di cui si parla ancora poco. E a proposito di spread apriamo una parentesi su quello pubblico: il nostro Stato paga decine di miliardi di euro l’anno sul debito, nel 2017 oltre 65 miliardi, il che significa che su ogni lavoratore e pensionato italiano gravano in media circa 600 euro l’anno solo per pagare il costo degli interessi.

Le banche hanno ridotto gli organici (-50 mila bancari in 15 anni), esuberi gestiti dal sindacato di categoria senza licenziamenti, con uscite agevolate volontarie e favorendo le assunzioni con il Fondo per l’occupazione costituito durante la fase di rinnovo dell’ultimo ccnl. Il settore ha operato una forte aggregazione e chiusura dei presìdi fisici, tra il 2008 e il 2017 sono stati chiusi circa 6.700 sportelli. Una cosa le banche non hanno mai smesso di fare: pagare il capitale, usando una terminologia che sembra essere caduta in disuso. Tra il 2006 e il 2018 le banche hanno sempre riconosciuto dividendi agli azionisti, anche quando nel 2011, 2013 e 2016 il sistema ha fatto registrare perdite da capogiro, rispettivamente 22,7, 22 e 19 miliardi di euro. In quegli stessi anni hanno comunque pagato 3,3, 2,4 e 4,8 miliardi di dividendi, attingendo alle riserve e intaccando il capitale. Di certo negli anni delle grandi perdite il sistema ha affrontato, correttamente, la massa di credito deteriorato che la crisi ha generato. I costi di rettifica del credito hanno consentito al settore di essere messo in sicurezza. Al dicembre 2018 le sofferenze nette nel settore ammontavano a 29,5 miliardi di euro, nel dicembre 2016 eravamo all’incredibile soglia di 86,6 miliardi. L’ultimo dato ci dice che siamo al di sotto dei livelli del dicembre 2010, che era di 36,6 miliardi.

Appare chiaro che l’Europa e l’Italia hanno bisogno di un grande piano d’investimenti pubblici e privati per creare buona occupazione. Gli investimenti dovrebbero andare verso la riqualificazione ambientale e l’innovazione. Occorre favorire la crescita salariale perché oggi si può essere poveri pur lavorando, quindi dobbiamo rinnovare i contratti riconoscendo oltre l’inflazione anche la produttività e ridurre le imposte sul lavoro spostando il carico fiscale sulle grandi ricchezze. I numeri parlano, la politica dovrebbe agire.

Nicola Cicala è direttore dell'Isrf Lab