Qualche anno fa intervistai Tullio De Mauro sul ruolo che aveva avuto la scuola nel faticoso processo di costruzione dell’unità nazionale. Si parlava delle tante riforme abbozzate e fallite negli ultimi anni e il grande linguista evocò – in antitesi rispetto a ciò che puntualmente succedeva nel nostro paese – il grande dibattito pubblico e nazionale che in Francia anni prima aveva lanciato Mitterand, una consultazione capillare e di massa rispetto a ciò era e doveva diventare la scuola in Francia.

Questo episodio mi è tornato alla mente a proposito del flop, ben oltre forse rispetto a quanto fosse prevedibile, del liceo del made in Italy lanciato con enfasi da Meloni e Valditara: sono stati, rispettivamente, appena 375 gli studenti e le studentesse a scegliere questo percorso. Un dato che si fa ancora più impressionante se riportato in percentuale: parliamo infatti dello 0,08%. Disastrosa anche la performance della proposta “sorella”, quella della filiera-tecnico professionale, con appena 1.669 iscritti.

Che c’entra De Mauro? C’entra perché dimostra tutto il velleitarismo di chi, populisticamente, crede di intercettare presunti desiderata del suddetto popolo facendosene un’idea fondata su ideologie e non sulla reale percezione dei bisogni delle persone. Insomma: “mostri” partoriti senza alcun progetto, analisi, riflessione rispetto a ciò che avviene nella realtà.

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E dire che di segnali ce ne erano stati: la stragrande maggioranza dei collegi dei docenti aveva già bocciato la sperimentazione in quattro anni della filiera nel corso di riunioni convocate online, in fretta e furia persino nelle vacanze natalizie, con procedure molto discutibili dal punto di vista formale.

“Non c’è niente di più legato alla nostra cultura di quello che questi ragazzi sono in grado di studiare e portare avanti: è il motivo per il quale ragioniamo di un liceo del made in Italy”. Così Giorgia Meloni il 3 aprile a Verona nel corso di Vinitaly 2023 aveva lanciato un indirizzo che appena un anno dopo è stato sonoramente bocciato dalle famiglie.

Se c’è una lezione che si può trarre da questa vicenda è quella di un certo ottimismo che riguarda la comunità educante che sembra molto più avanti di chi governa: docenti, famiglie e ragazzi hanno capito bene quanto di ideologico ci fosse in due proposte che avrebbero rappresentato il primo passo verso la privatizzazione del sistema pubblico dell’istruzione, con l’ingresso di esperti privati al posto dei docenti e che possono persino intervenire nella programmazione didattica, la riduzione di un anno del percorso, il taglio alle discipline di cultura generale in favore di una scuola intesa come addestramento professionale, l’alternanza scuola-lavoro a partire dai 15 anni e un legame sempre più stretto – una sorta di autonomia differenziata “dal basso” – con i territori.

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Un’ottica miope in una fase in cui il continuo mutare dei contesti sociali ed economici rende sempre più importante una formazione che offra saperi fondamentali, non usurabili e usurati in pochi anni e che, soprattutto, riproducono le faglie profonde che già solcano il paese.

Un solo esempio: la filiera tecnico-professionale prevede nel primo biennio un taglio di 99 ore sulle materie di istruzione generale, che passano da 1.320 a 1.221. Uno schema replicato nel quinto anno, quello conclusivo, dal quale vengono tolte altre 99 ore dall’area linguistica.

Altro che scuola della Costituzione, quella che forma cittadini consapevoli. L’obiettivo è chiaro: impoverire la formazione culturale di questi ragazzi e ragazze, ai quali si dice: “Preparatevi al lavoro che, se siete fortunati, riuscirete a trovare, pensate all’addestramento pratico e manuale, tanto la cultura non serve”.

Messaggio, però, rispedito al mittente.