Sono passati due anni dal femminicidio di Giulia Cecchettin, diventata un simbolo: le piazze piene, la rabbia, la commozione. Due anni dopo, eccoci di nuovo qui. A contare le vittime, a leggere titoli che si ripetono identici, spesso sbagliati con un linguaggio figlio del patriarcato e della cultura dello stupro. Ogni volta che di una donna non si hanno notizie nella mente di tutte risuona la paura di una fine che conosciamo dal primo istante. Ci riscopriamo sorpresi di fronte a un orrore che, in realtà, conosciamo benissimo.
Ogni volta crediamo in un cambiamento, ma poi tutto resta uguale. Le donne continuano a morire per mano di uomini e c’è chi continua a chiamarli “raptus”, “tragedie della gelosia”, “amori malati”. No: sono femminicidi. Sono il risultato di una cultura patriarcale che insegna a possedere, non a rispettare; che confonde la passione con il dominio e il controllo.

Lo disse Elena Cecchettin, sorella di Giulia: “Filippo Turetta non è un mostro è il figlio sano del patriarcato” e questo dovremmo avere sempre in mente.
Si parla di “educazione al rispetto”, ma poi, quando si ipotizza di introdurre l’educazione affettiva e sessuale nelle scuole, ci si ferma, come se parlare di sentimenti e consenso fosse una minaccia, non una salvezza.
Ci sono le leggi, vecchie e nuove, servono ma arrivano sempre dopo. La prevenzione è l’unica vera rivoluzione possibile e l’educazione è il suo motore. Ma il governo, invece di investire su questo, resta fermo: si parla di sicurezza, di punizioni, di carcere, ma non si parla di educazione sentimentale, come se fosse un tema secondario.
Eppure è da lì che tutto dovrebbe partire: dalle scuole, dai bambini e dalle bambine che imparano a dare un nome alle emozioni, a riconoscere il limite, a capire che l’amore non ferisce, non controlla, non uccide.

Un emendamento della Lega nelle scorse settimane vietava l’educazione sesso-affettiva nelle scuole, un provvedimento oggi ritirato. Nelle scuole se ne potrà parlare, come alle superiori, con il consenso dei genitori.
Giulia doveva essere l’ultima. Ma finché continueremo a temere la parola “affettività” più della parola “femminicidio”, continueremo a leggere i nomi di tante, troppe donne uccise da uomini. E ogni volta diremo che siamo sconvolti. Ma la verità è che non possiamo più permetterci di esserlo: possiamo solo scegliere se restare complici o cambiare davvero.