Bruno Buozzi nasce a Pontelagoscuro, provincia di Ferrara, il 31 gennaio 1881.

Aderisce nel 1905 al sindacato degli operai metallurgici e al Partito socialista italiano, militando nella frazione riformista di Turati (proprio in casa sua, nel 1932 Turati si spegnerà. Così Buozzi lo ricorderà così sulle pagine de L’operaio italiano: “Filippo Turati più che un capo politico deve essere considerato un altissimo maestro di vita e di morale. Grande cuore, non sapeva odiare. Contro lo stesso fascismo più che odio nutriva ripugnanza e disprezzo. Amava i giovani e in esilio era costantemente preoccupato che il movimento antifascista non ne avesse abbastanza”).

Nel 1920 è tra i promotori del movimento per l’occupazione delle fabbriche. Più volte eletto deputato socialista prima della presa del potere da parte del fascismo, nel 1926 espatria in Francia (è fra i pochissimi sindacalisti che Mussolini corteggia, ma rifiuterà con convinzione ogni coinvolgimento con il nuovo regime).

In Francia Buozzi apprende la notizia della decisione da parte del vecchio gruppo dirigente della CGdL di proclamare l’autoscioglimento dell’organizzazione.

Contro tale decisione ne decreta la ricostituzione a Parigi.

Il 1º marzo 1941 viene arrestato dai tedeschi su richiesta delle autorità italiane e rinchiuso nel carcere de La Santé, dove ritrova Giuseppe Di Vittorio.

“Il nostro incontro - racconterà Di Vittorio - avvenne nel febbraio 1941. Ignoravo che anche Buozzi si trovasse rinchiuso nella stessa prigione. Un giorno, verso la fine di febbraio, la polizia hitleriana addetta alle funzioni carcerarie, trasse dalla monotonia delle celle d’isolamento un folto gruppo di detenuti per una corvèe. Bisognava scaricare alcuni autocarri carichi di eccellente pane, destinato ai nostri carcerieri. Fummo raggruppati in un cortile, dal quale poi, per gruppi di dieci detenuti in fila indiana, scortati da guardie armate di mitra, si partiva carichi di sacchi ripieni di pagnotte, verso i magazzini dell’immensa prigione. Appena i nostri occhi si incontrarono, con moto quasi istintivo manovrammo entrambi accortamente per avvicinarci l’uno all’altro. Riuscimmo appena a toccarci furtivamente le mani, giacché la severissima vigilanza dei nostri aguzzini tendeva a rendere impossibile ogni scambio di parole e di segni fra detenuti. Vidi gli occhi amichevoli di Buozzi brillare di gioia nel vedermi: ero la prima persona conosciuta e amica che incontrava in quella triste prigione, nello stato di angoscia in cui lo aveva gettato l’arresto. ‘Per me non m’importa nulla’, mi disse subito: ‘Mi preoccupa il grande dolore di mia moglie e della mia bambina, poveretti!’. Un urlo da belva emesso da uno dei nostri guardiani, che aveva sentito il bisbiglio di quelle poche parole, troncò sull’inizio la nostra conversazione. Tuttavia riuscimmo a rimanere nello stesso gruppo di dieci e a marciare l’uno dopo l’altro nella corvèe. Mentre salivamo uno scalone, curvi sotto il carico del pane, riuscii a dire a Buozzi parole di conforto per la sua famiglia e cercai di sapere le cause del suo arresto. Buozzi mi disse che la Gestapo hitleriana, ignara della sua vera personalità, voleva sapere da lui i motivi del suo arresto, dato ch’Egli era stato arrestato su richiesta del governo fascista italiano, per essere trasferito in Italia, a disposizione di Mussolini”. Bruno Buozzi aveva appena completato la frase prosegue di Vittorio “che uno dei nostri guardiani, con uno spintone improvviso a Buozzi - che mi precedeva - ci sbatté a terra entrambi, facendoci ruzzolare sulle scale, col nostro carico di pane, coprendoci d’improperi e di minacce. Fummo subito separati e riportati ognuno nella propria cella, col rimpianto di non aver potuto continuare il discorso e con le narici inondate dalla fragranza di quel pane fresco, che la fame ci faceva sognare ogni notte! Da quel momento, però, con la tecnica nota ai vecchi carcerati politici, riuscii a stabilire collegamenti quasi regolari con Buozzi mediante lo scambio di biglietti, con i quali ci mandavamo notizie e pensieri e qualche cibaria”. Dopo alcuni giorni i due riusciranno a prendere l’ora d’aria quotidiana nello stesso cortile, “dove la possibilità e la volontà dei detenuti di conversare fra loro sono più forti della più occhiuta vigilanza. Tutte le nostre conversazioni, partendo dal presupposto comune dell’assoluta necessità dell’unità sindacale, nazionale e internazionale, e dall’esigenza imperiosa dell’unità d’azione fra i due partiti, comunista e socialista - quale base fondamentale d’unità della classe operaia - rafforzavano continuamente il nostro accordo sulle questioni di maggiore interesse, relative alla riorganizzazione del movimento operaio italiano e alla ricostituzione democratica dell’Italia”.

Un’Italia nella quale Buozzi ritorna, sempre da prigioniero, poco tempo dopo.

Il regime fascista lo assegna al confino a Montefalco in provincia di Perugia, dove rimane per due anni, prendendo alloggio in un piccolo stabile.

Dopo il rovesciamento di Mussolini del 25 luglio 1943, viene liberato cinque giorni già tardi.

“A Roma - ricorderà Sandro Pertini - insieme con Bruno Buozzi, andiamo tutti i giorni dal capo della polizia, Carmine Senise, e infine riusciamo a ottenere la liberazione dei confinati”.

Insediato al vertice della organizzazione dei lavoratori dell’industria dal Governo Badoglio, dopo gli scioperi di Torino sarà lui a siglare con gli industriali l’importantissimo accordo interconfederale per il ripristino delle Commissioni interne, il cosiddetto patto Buozzi-Mazzini.

Attivo nel tentativo di contrastare l’ingresso dei tedeschi a Roma a Porta San Paolo, entrerà in clandestinità durante l’occupazione della Capitale col falso nome di Mario Alberti. 

Con i documenti di Mario Alberti, ingegnere di Benevento, abita a Trastevere nella casa di un compagno. 

Qui, il 13 aprile 1944, viene arrestato. 

Sarà trucidato due mesi più tardi. 

Un testimone lo ricorda “solido e dritto nella persona, i capelli folti che vanno divenendo grigi, il solito suo sguardo franco, sereno”.

“Mio padre aveva un carattere molto calmo - raccontava nel 1984 a Repubblica la figlia Iole Buozzi Martinet, moglie di Gilles Martinet, partigiano, giornalista, militante socialista, primo ambasciatore a Roma di Francois Mitterrand, che per lunghi mesi le nasconderà pietosamente la notizia dell’assassinio del padre - cercava di creare in casa un clima sereno, disteso. Con noi era un padre adorabile, molto affettuoso. Malgrado questo i miei primi ricordi della nostra vita famigliare sono dei ricordi di paura: lui che torna a casa, una sera, e ha il viso e le mani insanguinate. Era stato a una riunione sindacale, non rammento bene la data, ma sarà forse stato il 1920, o il 21, gli anni dei primi assalti fascisti alle camere del lavoro: i fascisti avevano appunto fatto un’incursione e l’avevano picchiato duramente (…) Mio padre era un socialista riformista, era grande ammiratore e amico di Turati. Più tardi anzi a Parigi Turati venne a vivere con noi. Io lo ricordo come un nonno dolcissimo, facile a commuoversi, mi aiutava a fare i compiti, giocava con noi. A Parigi la comunità italiana era molto legata: vedevamo spesso la famiglia Nitti, i Rosselli, Modigliani, la famiglia Saragat. La moglie di Saragat mi cucì l’ abito da sposa. Una volta venne anche Pertini, è stato proprio lui a ricordarmelo quando ci siamo rivisti qui a Roma. Allora facevamo una vita modesta, ma non misera, dopo il primo anno che fu molto duro l’atmosfera si era fatta abbastanza serena, ricordo che organizzammo anche qualche festicciola”.

Pillole di normalità per una ragazza, una famiglia - tante famiglie - che, per la nostra libertà, hanno pagato un tributo personale altissimo.

“Il fascismo - diceva Buozzi nel 1930 - rappresenta nella vita nazionale dell’Italia un episodio doloroso: i segni della riscossa e della liberazione sono già ripetuti e frequenti. L’esperienza fascista, soprattutto in campo operaio, costituisce una ingiustizia atroce, un passo all’indietro, la perdita di anni preziosi. Ma nel popolo italiano, sobrio e lavoratore, tenace e paziente, si registra una forza vitale così meravigliosa, una energia così sincera e così sicura che i lavoratori d’Italia, quando si saranno liberati dal fascismo, sapranno recuperare in fretta gli anni perduti. E di questa parentesi umiliante nella sua violenza e nella sua brutalità gli italiani avranno allora avuto un solo beneficio: la ferma convinzione che la libertà è una condizione necessaria per qualsiasi elevazione delle masse, e che in questo consiste il bene supremo; un bene, però, da conquistare e difendere ogni giorno”.

Da conquistare e difendere ogni giorno, non dimentichiamolo.