Una clamorosa marcia indietro. È quella che ha dovuto fare il partito della premier Meloni, che aveva provato a inserire alla chetichella nel decreto Ilva, in discussione in Parlamento, un emendamento che toglieva diritti ai lavoratori e faceva un regalo alle aziende. Poco dopo, lo ha ritirato. Perché? “A causa dei tempi troppo stringenti di conversione del decreto Ilva fissati per il 25 agosto” è la versione ufficiale.

Levata di scudi

In realtà, contro l’articolo 9 bis del disegno di legge di conversione del decreto n. 92 2025 c’è stata una levata di scudi da parte di Cgil e Uil, dei partiti dell’opposizione, delle associazioni di giuristi, Comma 2 in testa, di Magistratura democratica.

Tutti concordi nel dire no a una norma che rendeva molto più difficile chiedere gli arretrati per i crediti da lavoro, cioè stipendi, indennità, ferie non godute, straordinari e altri trattamenti, era un grave attacco ai diritti dei lavoratori, avrebbe penalizzato 20 milioni di dipendenti.

Partita aperta

La partita, però, non è ancora chiusa. Il senatore di Fratelli d’Italia, capogruppo della commissione Industria a palazzo Madama Salvo Pogliese, che ha annunciato il ritiro dell’emendamento, nel comunicato ha aggiunto: “Ritengo opportuno che questo emendamento sia oggetto di un articolato dibattito in Commissione, data l'importanza e la delicatezza del tema. Verrà dunque ripresentato all’interno di un altro provvedimento legislativo con tempi più adeguati alla sua discussione". Non è cancellato quindi, ma momentaneamente accantonato.

“Questo dimostra che sebbene oggi abbiano ritirato l’emendamento, ci sia comunque l’intenzione di riproporne il contenuto in un altro provvedimento - afferma la segretaria confederale della Cgil Maria Grazia Gabrielli -. Troveranno la nostra opposizione. Le valutazioni restano le stesse, negative. Peraltro l’emendamento era stato inserito in un contesto normativo che dovrebbe avere la finalità di salvare posti di lavoro e supportare segmenti produttivi, dall’Ilva al tessile, mentre la norma ritirata voleva rendere sempre più difficile la tutela dei salari in tutti i casi di crediti retributivi nei confronti del datore”.

I termini della prescrizione

L’emendamento rendeva molto più difficile chiedere gli arretrati per i crediti da lavoro, cioè stipendi, indennità, ferie non godute, straordinari e altri trattamenti. Come? Cambiando i termini della prescrizione. Oggi i lavoratori possono agire in tribunale entro cinque anni dalla cessazione del rapporto per chiedere ciò che gli spetta e che il datore non ha corrisposto. Con la norma che era stata proposta, il conteggio dei cinque anni sarebbe scattato durante il rapporto di lavoro.

Sembrano dettagli ma non lo sono. Potete Immaginare? Fare causa al vostro datore perché non vi ha corrisposto gli straordinari oppure non ha riconosciuto in busta paga certe indennità, mentre ancora lavorate per lui?

Come tornare al padronato

“È un intervento che suscita, più che dubbi o contrarietà, vero sconcerto: nel merito e nel metodo – ha scritto Magistratura democratica -. I lavoratori, per vedere riconosciuto un loro diritto, dovrebbero essere costretti ad agire in giudizio contro il loro datore di lavoro anche mentre ne sono ancora dipendenti, per di più entro limiti temporali molto ristretti. Rendere difficile contestare le scelte di chi comanda sul lavoro, impaurire, rendere rassegnati, far piegare la schiena. Cioè tornare al ‘padronato’ di decenni orsono, quello che ha sempre resistito alla Costituzione e alla dignità del lavoro e dei lavoratori”.

Attacco ai diritti

La norma ritirata prevedeva anche che se un lavoratore inviava una lettera al datore per rivendicare i suoi crediti, sarebbe stato costretto ad agire in giudizio entro 180 giorni dalla lettera, a prescindere dai cinque anni di prescrizione, altrimenti sui suoi crediti sarebbe intervenuta la decadenza. Un altro modo per mettere fretta e soggezione al lavoratore. Infine rendeva più convenienti i cosiddetti contratti pirata.

“L’emendamento si collocava dentro quella che ormai è una strategia d’intervento complessiva che punta a demolire importanti ambiti delle tutele lavoristiche, utilizzando ogni veicolo legislativo – conclude Gabrielli -. E costituiva l'ennesimo attacco alla magistratura, ponendosi in contrasto con le sentenze della Corte di Cassazione che negli ultimi anni, in tema di prescrizione ed equa retribuzione, avevano stabilito l'esatto contrario di quanto previsto dall’emendamento”.